Buon lunedì, prodi seguaci!🥋

Se l’estate si mantenesse tranquilla su queste temperature di caldo accettabile, potrei anche rivedere il mio odio per questa stagione. Riesco a leggere e a funzionare abbastanza normalmente, quindi me lo godo finché dura. Questo fine settimana mi sono dedicata tra le altre cose alla lettura di Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka: eccovene una citazione.

I momenti migliori erano quando uscivamo per andare dal parrucchiere, o per pranzare al club, e i loro mariti erano ancora in ufficio, e i loro figli ancora a scuola. Allora nessuno ci osservava. Nessuno ci parlava. Nessuno ci arrivava si soppiatto alle spalle mentre pulivamo i lampadari per vedere se avevamo lasciato qualche granello di polvere. La casa era completamente vuota. Silenziosa. Nostra. Aprivamo le tende. Spalancavamo le finestre. Respiravamo l’aria fresca mentre passavamo da una stanza all’altra, spolverando e lucidando i loro oggetti. Guardano solo se brilla. Allora ci sentivamo più tranquille. Meno impaurite. Ci sentivamo, per una volta, noi stesse.

Una voce forte, corale e ipnotica racconta la vita straordinaria di un gruppo di donne – le cosiddette «spose in fotografia» – partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America, a cominciare da loro primo, arduo viaggio collettivo attraverso l’oceano. È su quella nave affollata che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. Seguirà l’arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l’esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l’attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosvelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici.