«Ancor più di Virginia Woolf, Janet Frame è prigioniera della sua biografia», scrive Hilary Mantel nell’introduzione a questo volume. La grande scrittrice neozelandese trascorse otto anni della sua vita in vari ospedali psichiatrici e fu sottoposta a più di duecento elettroshock, «ognuno pari per intensità di paura a un’esecuzione capitale». La sua intera opera è attraversata da cima a fondo dal ricordo di questo doloroso capitolo della sua esistenza, come ampiamente mostra Un angelo alla mia tavola, l’autobiografia che le ha dato la fama e che fu oggetto di una memorabile trasposizione cinematografica di Jane Campion.
Il libro, tuttavia, in cui la sua esperienza ospedaliera viene restituita nella maniera più cruda e, nello stesso tempo, poetica è certamente Volti nell’acqua, benché Janet Frame abbia scritto di avervi ammorbidito la verità, temendo che altrimenti non le avrebbero creduto.
Istina Mavet è il personaggio principale dell’opera che, come ha scritto l’autrice, non è la semplice rappresentazione di se stessa, ma qualcosa di più. Hilary Mantel ricorda come Istina significhi verità in serbocroato e Mavet morte in ebraico. Istina Mavet è la vittima e, insieme, la testimone di una reclusione in cui è in questione tutto tranne che la cura. L’ospedale dove resta più a lungo ospita pazienti di ogni età e patologia, malati di demenza senile, criminali, persone con disturbi genetici e semplici sofferenze emotive. I medici non si fanno vedere mai e le infermiere hanno il solo compito, non immune da un certo sadismo, di controllare i pazienti.
«Il libro – scrive Hilary Mantel – è una testimonianza di umiliazione e terrore, squarciata da riflessioni raggelanti. Il vissuto dei suoi per sonaggi viene trasferito sulla pagina con una leggerezza tale che il lettore non lo vive mai come un’esperienza punitiva. È un racconto di sofferenza che riesce a entusiasmare e stra ziare allo stesso tempo, perché la sua stessa esistenza – il fat to che Istina sopravviva e racconti la storia – dimostra che quella sofferenza non l’ha distrutta».
Contiene certamente pagine strazianti, come quelle in cui vengono descritti i balli e le occasioni conviviali in cui le pazienti, agghindate in vestiti della festa che le fanno sembrare «prostitute da operetta», vengono trascinate fuori dai reparti per divertirsi. Tuttavia, anche le «pagine più buie sono illuminate dalla consapevolezza che la vita umana è qual cosa di prezioso, e che ogni vita è unica».
«Janet Frame era il prodotto di ciò che aveva alle spalle, ma è riuscita a illuminarlo e trasfigurarlo. Una vita quasi appassita che è sbocciata in una fioritura di bellezza. Janet Frame rientra fra quegli scrittori che ti fanno pensare, che ti piaccia o no, alle misteriose vie della grazia».
Hilary Mantel
«Che donna straordinaria è Janet Frame, superare così tanti ostacoli, e poi accoglierli meravigliosamente nella tua opera».
Doris Lessing

2019 RHC, Task 8: Un libro taggato #ownvoices ambientato in Oceania

Janet Frame è stata una delle autrici del cuore della mia infanzia: annovero Cuor di formica (che credo sia anche l’unico libro per bambinu che abbia scritto, ma potrei sbagliarmi) tra i libri che più mi hanno fatto compagnia prima dell’adolescenza. Quindi nella mia testa era avvolta in un’aurea di luminosità e positività: per la me stessa adulta è stato un po’ shockante scoprire che invece ha avuto una vita piuttosto difficile e colpita dall’ignoranza in materia di salute mentale e neurodiversità.

Frame fu rinchiusa per la prima volta in un ospedale psichiatrico nel 1945 perché non fu ritenuta normale, perdendo anche l’idoneità all’insegnamento. Nei successivi otto anni fu ricoverata molte altre volte, venendo sottoposta a trattamenti disumani, quali l’elettroshock e la terapia dello shock insulinico. Le fu risparmiata la lobotomia solo perché nel 1951 pubblicò il suo primo libro, La laguna e altre storie, ed ebbe un grande successo, vincendo anche lo Hubert Church Memorial Award.

Pensate un po’, allontanata dall’insegnamento perché non si comportava come una brava insegnante deve fare (il tentativo di suicidio, il rifiuto di tornare a casa dai familiari violenti…) e risparmiata dalla lobotomia perché utile a dare lustro alla letteratura neozelandese. Brava finché stai al tuo posto, ti comporti come la società si aspetta e servi a qualcosa; cattiva nel momento in cui rifiuti di accettare passivamente il tuo ruolo.

Volti nell’acqua è la storia terribile di una donna ritenuta malata di mente e curata come Frame con elettroshock e terapia dello shock insulinico. È la storia di una discesa verso la disumanità: Istina, la protagonista, ci prova a essere quello che lo staff medico e le persone al di fuori della struttura psichiatrica si aspettano che lei sia. Ci prova davvero a sottomettersi a quella tortura dell’elettroshock mostrandosi tranquilla e volenterosa, grata a chi la sevizia per il suo impegno nel cercare di salvarla.

Ma Istina continua a non guarire. E più la paziente è difficile e più scivola nel baratro del trattamento disumano, perché più sei irrecuperabile e meno possibilità hai di uscire di nuovo dall’ospedale psichiatrico e meno il personale si fa scrupoli, ogni dignità umana persa con la tua normalità.

Volti nell’acqua è un romanzo autobiografico dal quale si esce a fatica, trascinando i piedi nel pantano che sono diventate le vite di queste donne dimenticate e con la consapevolezza che Frame ci ha addolcito la pillola, perché pensava che, se avesse scritto davvero di quanto era stata tremenda la sua esperienza, nessunu le avrebbe creduto.