Buon lunedì, prodi seguaci!🐫

L’afa maledetta è arrivata e ho pensato di raccogliere il consiglio di Terry Pratchett e leggere Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis: magari cado dal cammello e acquisisco il superpotere di resistere al caldo, chissà…

Papà ci si appassionò subito, noi meno, dato che toccava ai ragazzi scavare buche in cui gli animali dovevano cadere. Una buca profonda tre metri, e lunga e larga altrettanto, richiede la rimozione di ventisette metri cubi di terra, che non è affatto uno scherzo se bisogna rompere la terra con un bastone indurito a fuoco e poi spalarla con le mani o, al massimo, con una scapola di cavallo. Ma papà insisteva: quello che gli piaceva delle trappole, diceva, era lo loro qualità automatica. «È un lavoraccio, lo so;» ammetteva «ma l’idea è azzeccata. Basta escogitare qualche strumento più efficace per il movimento terra». Non ci riuscimmo mai, cosicché fu un bel sollievo per noi quando ci presentò la sua invenzione successiva: una lancia sospesa a punta in giù tra due alberi mediante una sottile liana che attraversava il sentierò all’altezza delle zanne del cinghiale. Quando la bestia, avanzando con la solita irruenza cieca, rompeva la liana, la lancia scattava inchiodandola col groppone trafitto. «in nuce, è il principio della retroazione» commentava criptico mio padre, che avrebbe infestato di schidioni a scatto tutta la foresta, se avesse potuto fidarsi di più della sua e della nostra memoria. Infatti dimenticarsi dov’erano le trappole poteva risultare fatale. Zio Vania per un pelo non finì infilzato e venne a lamentarsene vibratamente.

«Il libro che avete fra le mani è uno dei più divertenti degli ultimi cinquecentomila anni» ha scritto Terry Pratchett. È vero, tanto tempo è passato, da quando vissero Ernest, il narratore di questo libro, con la sua ingegnosa famiglia, dal padre Edward, che fu senza dubbio «il più grande uomo scimmia del Pleistocene», a quell’amabile reazionario di zio Vania, che tornava sempre a vivere sugli alberi, a quel viaggiatore incallito dello zio Ian, per non parlare delle ragazze. Un curioso gruppetto, che si trovò, sotto la guida del grande Edward, nella delicata situazione di chi dà all’evoluzione una spinta che non si riequilibrerà mai: la spinta da cui siamo nati tutti noi. Ragionando con impeccabile acume scientifico, nonché un delizioso humour freddo, Edward e i suoi scoprirono «alcune delle cose più potenti e spaventose su cui la razza umana abbia mai messo le mani: il fuoco, la lancia, il matrimonio e così via», sempre sulla base di una elementare esigenza: quella di «cucinare senza essere cucinati e mangiare senza essere mangiati». E naturalmente non mancarono le dispute e i crucci, perché ogni volta si poteva discutere se quelle nuove invenzioni erano davvero buone o cattive, se non rischiavano di sfuggire al controllo e soprattutto se non andavano un po’ troppo contro la natura. Mah…
Pubblicato per la prima volta nel 1960, e poi ripreso più volte sotto vari titoli, questo libro si è fatto strada silenziosamente fra i classici della fantascienza a ritroso. Ma in realtà è un libro inclassificabile: una riflessione romanzesca, acutissima e leggera, su tutta la storia dell’umanità, contrassegnata in ogni dettaglio da quella limpidezza e da quell’ironia che appartengono alla migliore tradizione letteraria e scientifica inglese. Quando Théodore Monod lesse questo libro, segnalò all’autore uno o due errori tecnici, subito aggiungendo «che non importavano un accidente, perché la lettura del libro l’aveva fatto ridere tanto che era caduto da un cammello nel bel mezzo del Sahara».