Buon mercoledì, prodi seguaci! ^^
Sono diversi giorni che non pubblico un articolo, ma sono state giornate intense per me (e a mia discolpa posso aggiungere che, imbiancando casa, il mio computer era sommerso da una valanga di roba proveniente da altre stanze…). Comunque, ho visto che i/le seguaci sono aumentat* lo stesso e le visite sono continuate… quindi non mi resta che sperare che non fosse un messaggio subliminale per statte zitta! 😀
Sia come sia, oggi vi propongo una citazione da Breve storia della morte di William M. Spellman, che non è affatto deprimente ed offre numerose riflessioni interessanti.
Per Becker le situazioni più problematiche si verificano quando il bisogno inveterato di negare la morte produce un mondo pieno di dogmi e il desiderio di imporli anche al prossimo. L’intolleranza religiosa è l’esempio più lampante, seguito a ruota dalla violenza scatenata da presunte differenze di cultura, nazionalità e razza. In altri casi il fallimento personale nasce dal fatto di equiparare in modo semplicistico la felicità al possesso e al consumo, ciò che inoltre ha provocato danni ambientali di cui sentiremo gli effetti per molti anni a venire. A quanto pare il nostro bisogno di distrarci può superare la saggezza individuale e collettiva, preludendo alla possibile morte prematura di un intero ecosistema. Senza un sistema di riferimento più ampio e condiviso, senza una sensibilità cosmica o ciò che la storica Karen Armstrong ha definito una «rivoluzione spirituale», le prospettive a detta di molti non sono affatto rosee.
«La pietra fu usata prima per i sepolcri che per le abitazioni». Con arguzia epigrafica le parole di Miguel de Unamuno riaffermano una verità incisa su millenni di storia umana: la paradossale antecedenza della morte sulla vita. Dalla consapevolezza della fine biologica – stigma della nostra specie – muovono infatti le civiltà per allestire il loro apparato materiale e immateriale, i monumenti che sfidano la caducità, le grandiose visioni religiose che prefigurano l’inconoscibile, i sistemi di pensiero che elaborano il senso della finitezza, i codici morali che regolano la condotta personale e il vivere associato. Senza l’onnipervasività della morte non esisterebbe nulla di tutto ciò. William M. Spellman rende omaggio a questa signoria insieme drammatica e feconda, ripercorrendone i tempi e i modi dal Paleolitico a oggi. Convoca concezioni dell’aldilà e idee di immortalità – incarnata, disincarnata, sociale, ossia affidata al solo ricordo – e reincarnazione, teorie mortaliste, pratiche di congedo dei morenti, culti degli antenati, riti funerari, espressioni del lutto. Ma il grandangolo di Spellman inquadra anche un’assenza. Adesso, nel pieno di una «rivoluzione della mortalità» che ha invertito la spaventosa percentuale di morti premature o violente tipica dell’intera vicenda dell’uomo, è proprio il morire a venire occultato culturalmente. La dilatazione tecnologica del fine-vita espelle l’esperienza della morte dallo spazio domestico e finisce per spezzare il legame di appartenenza tra i vivi e i morti che aveva confortato la nostra fragilità. Negare la morte non ci aiuterà a vivere meglio.