Copertina di Lo spirituale nell'arte di Wassily Kandinsky: riproduce un quadro di Kandinsky, Accento in rosa

“Nell’agosto del 1910, a Murnau in Baviera, Wassily Kandinsky termina uno degli scritti più singolari del secolo. Si intitola “Lo spirituale nell’arte”. Non è una dichiarazione di poetica, non è un trattato di estetica, non è un manuale di tecnica pittorica. È un libro di profezie laiche, in cui misticismo e filosofia dell’arte, meditazioni metafisiche e segreti artigianali si sovrappongono e si confondono, nel presentimento di un’arte nuova. L’aurora della pittura, che Kandinsky crede di annunciare, si riverbera anche sulle sue pagine, che ci appaiono insieme incerte e perentorie, divise tra ombra e chiarore.” (Dalla postfazione di Elena Pontiggia)

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Ho recuperato questo libricino perché l’ho visto citato in I segreti dei tarocchi Rider Waite Smith e ha acceso la mia curiosità. È stato con mia grande sorpresa che mi sono trovata a leggere delle considerazioni molto interessanti di Kandinsky sull’arte, che si applicano molto bene a una riflessione sullo stato della letteratura nel nostro tempo, argomento che periodicamente ritorna nei nostri blog per la nostra perplessità di lettorə su alcune dinamiche all’interno dell’universo editoriale.

Due avvertenze: la prima è che il libro di Kandinsky ovviamente parla perlopiù di pittura, mentre io sono rimasta folgorata dall’applicazione che le sue riflessioni possono avere in altri ambiti artistici, con l’aggravante che queste riflessioni coprono solo le prime venti pagine del saggio. Quindi, ecco, siete avvertitə che sto per sproloquiare su una frazione di quello che Kandinsky voleva esprimere – chiedo umilmente perdono.

La seconda avvertenza riguarda il fatto che, se anche voi volete leggere questo libriccino, preparatevi a leggere un testo che in alcuni punti è piuttosto criptico ed ermetico: è abbastanza breve da non costituire chissà quale grande ostacolo, ma davanti ad alcuni passaggi si rimane un po’ perplessə.

Ora che sapete a cosa andrete incontro, posso iniziare lo sproloquio.

Ogni opera d’arte è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei nostri sentimenti.

Analogamente, ogni periodo culturale esprime una sua arte, che non si ripeterà mai più. Lo sforza di ridar vita a princìpi estetici del passato può creare al massimo delle opere d’arte che sembrano bambini nati morti.

Ecco, anche a questo servono le grandi figure dell’arte: a dare forma ai pensieri informi nella tua testa. Ditemi se questa citazione non sembra racchiudere in sé la bruttura e l’insensatezza di molto materiale (ri)narrato ai giorni nostri. Siamo circondatə da bambinə natə mortə, che siano film, romanzi o serie tv, e purtroppo sembra che il marketing abbia ancora da far ballare questi cadaveri putrescenti.

L’arte che non ha avvenire, che è solo figlia del suo tempo ma non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. Ha vita breve e muore moralmente nell’attimo in cui cambia l’atmosfera che l’ha prodotta.

Anche l’altra arte, suscettibile di nuovi sviluppi, è radicata nella propria epoca, ma non si limita a esserne un’eco e un riflesso; possiede invece una stimolante ‘forza profetica’, capace di esercitare un’influenza ampia e profonda.

L’altro problema del nostro tempo sembra la mancanza di opere che danno l’idea di avere un peso specifico tale da rimanere importanti anche in futuro. Ovviamente, ci sono delle opere bellissime e importanti anche ora e solo il senno del poi ci potrà dire se rimarranno rilevanti, ma permane comunque la sensazione che la mole di opere irrilevanti sia soverchiante. Una sensazione che per me non deriva solo dal quantitativo spaventoso di nuovi titoli sfornati ogni mese dal mercato, ma anche dal disorientamento provocato da coloro che dovrebbero, come professione, indirizzare verso i titoli migliori, e invece finiscono per rendere torbide le acque della sincerità e dell’onestà con sponsorizzazioni più o meno manifeste.

Poiché in tempi simili l’artista medio non ha bisogno di dire molto e gli basta un minimo di «diversità» per farsi notare e osannare da certi gruppetti di mecenati e conoscitori (il che può comportare grandi vantaggi materiali), una gran massa di persone superficialmente dotate si butta sull’arte, che sembra così facile. In ogni «centro artistico» vivono migliaia e migliaia di artisti, la maggior parte dei quali cerca solo una maniera nuova, e crea milioni di opere d’arte col cuore freddo e l’anima addormentata.

La «concorrenza» cresce. La caccia spietata al successo rende la ricerca sempre più superficiale. I piccoli gruppi, che casualmente si sono sottratti a questo caos di artisti e di immagini si trincerano nelle posizioni conquistate. Il pubblico, che è rimasto arretrato, guarda senza capire, non ha interesse per un’arte simile e le volta tranquillamente le spalle.

È opinione diffusa che siccome si impara a scrivere da bambinə chiunque possa dilettarsi nel diventare scrittorə. Come se per intraprendere questa professione non servisse alcun talento particolare, nessuno studio o nessuna pratica: se hai una storia che ti ronza in testa, basta che la scrivi ed è fatta. Eppure far notare che buttare giù un’idea, anche se buona, non è affatto sufficiente – a meno di non avere davvero un talento speciale – e porta solo ad aumentare il numero di libri monnezza che si affastellano nelle librerie può portare a conversazioni davvero surreali.

A un colloquio di lavoro dove era venuto fuori che amavo leggere, una tizia, completamente a caso, mi disse che dovevo assolutamente scrivere un libro. Magari si era solo rotta le scatole di ascoltare persone in cerca di uno stipendio, ma le feci gentilmente notare che non era il caso perché leggere tanto non mi rendeva automaticamente una donna che sa scrivere. Non l’avessi mai detto: questa mi si è inalberata e ha iniziato a dirmi che non dovevo sminuire le mie capacità – quali capacità? – e provare a scrivere quella storia che avevo in testa – chi ha detto che avevo una storia in testa?

Manco a dirlo, quel lavoro non l’ho avuto e non ricordo come svicolai da questa situazione alla quale non avevo pensato di prepararmi: la convinzione granitica che se leggi tanto sai scrivere e se sai scrivere hai una storia in testa e se hai una storia in testa una tizia a caso durante un colloquio di lavoro ha il dovere di spronarti a scriverla. Ma anche no.

Leggere molto mi ha dato la consapevolezza di quanto sia difficile farlo: per scrivere un buon romanzo non basta avere una buona idea, se consideriamo che a volte non basta nemmeno avere il talento. Pensiamo a Stephen King: di sicuro ha le idee e il talento, eppure non ha scritto solo capolavori indimenticabili. Quindi possiamo smettere si osannare l’ultima trashata come se fosse oro colato e prenderla per quello che è: una roba che vorrebbe essere letteratura, ma non ce la fa e che eventualmente ci piace perché ci fa piacere una dose di storie idiote per rilassarsi. Niente di più, niente di meno.

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Valutazione del libro: quattro stelline gialle

9 risposte a “Lo spirituale nell’arte di Wassily Kandinsky”

  1. Effettivamente pare un’opera molto interessante. Per quanto riguarda i nostri tempi, il vero problema è che tutto va fin troppo velocemente. Non c’è quasi tempo per fare le cose con calma, bisogna andare in fretta ed è questo che alla fine danneggia tutti noi e l’arte. Anche con i film, ad esempio, prima si tendeva a far rimanere certe opere il più a lungo possibile in sala, ora invece cercano di metterli direttamente in streaming. La velocità e la quantità di cose prodotte non da spazio o tempo alla persona per poterle apprezzare veramente.

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    1. È vero, c’è anche la questione della velocità: a volte escono così tante cose interessanti contemporaneamente che una persona si sente sopraffatta all’idea di stare al passo con tutto quello di cui vorrebbe interessarsi.

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      1. Lo stesso sta accadendo nel mondo del cinema e io non riesco a stargli dietro. E onestamente sarebbe anche una cosa sbagliata vedere così tante cose in poco tempo perché non si ha il tempo di riflettere bene su quell’opera

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      2. Ma infatti, non è umanamente possibile star dietro a tutto: per quanto una persona possa essere appassionata poi, non è che può dedicarsi solo a quello…

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      3. Io amo il cinema ma ho deciso di prendermi i miei tempi, godermi le pellicole e non seguire il film del momento. Che poi è così che, a mio avviso, si dovrebbe fare se si vuole apprezzare a fondo certe opere.

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      4. Fai benissimo. Alla fine, una volta usciti, son lì ad aspettarti!😊

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  2. Interessante il colloquio di lavoro! Credo si tratti di una strana concezione del binomio lettura/scrittura come una tipologia di relazione binaria cui applicare una originale forma di proprietà commutativa: essendo, va supposto, reale che chi scrive è qualcuno che, anche, legge ne dovrebbe derivare che chi legge scrive: prescindendo da uno si impegni a scrivere, è probabilmente vero; tipo: la lista della spesa.
    E tuttavia, ancor più divertente, sempre volendo applicare al binomio una anomala proprietà commutativa, occorrerebbe derivarne che, chi non scrive (romanzi, immagino!), non si vede perché mai dovrebbe leggere: credo sia il caso della tua intervistatrice che, dal proprio punto di vista, ha correttamente giudicato la lettura una tua “capacità” non comune in quanto a lei mancante).
    Strano come certe cosa riescano a farti sentire ilare e triste allo stesso tempo.

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    1. È un po’ come se si fosse risentita perché so premere l’interruttore per accendere la luce, ma non installare un impianto elettrico. È stato davvero strano, soprattutto per la foga (e la sua inutilità, visto che il lavoro non prevedeva nessuna competenza in ambito di scrittura creativa).
      Sai che invece io credo fosse una lettrice? Tenendo conto che saranno passati dieci anni e che i miei ricordi potrebbero non essere in splendida forma, mi buttò lì dei dettagli dell’editoria che non penso potessero appartenere a una non-lettrice. Sarà stata infatuata del cliché romantico della lettrice forte che corona il sogno di diventare a sua volta scrittrice? Chissà…

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      1. Ah beh! Allora, probabilmente, aspirante scrittrice, frustrata.
        Più che da comprendere, anche se decisamente fuori contesto.

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