Buona Festa della Liberazione, prodi seguaci!🌹
Visto che la volontà di riscrivere la storia della lotta antifascista è viva e vegeta e gode di un rinnovato interesse e diffusione grazie ai social network, vi propongo una citazione da La morte, la fanciulla e l’orco rosso di Nicoletta Bourbaki, nome collettivo di un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete e sulle false notizie a tema storico. In questo libro approfondisce il caso di Giuseppina Ghersi, di cui il gruppo aveva già scritto in un articolo sul blog di Wu Ming, che vi invito a recuperare se non già non lo conoscevate.
Oggi una narrazione antipartigiana storicamente falsa o imprecisa o non fondata può nascere e diffondersi in poche ore. Su Facebook, ad esempio, prosperano pagine dove sono riportate cifre iperboliche di presunti stupri compiuti da partigiani, cifre implausibilmente precise – 3.245, oppure 4.768 -, con cui si vuole dare l’impressione che siano basate su ricerche o su dati in realtà inesistenti. Ebbene, la diffamazione dei partigiani fondata su accuse di violenza sessuale è un fenomeno divenuto popolare tra i neofascisti soltanto di recente: queste presunte “migliaia” di stupri sono assenti dalla stessa memorialistica e pseudostoriografia di estrema destra pubblicata nel ventesimo secolo. Meriterebbe di essere approfondito il perché di questa recente ondata di infamia basata su accuse di violenze sessuali. Certamente qui si può ricordare che, prima della riforma del 1996, nel codice penale – emanato nel 1930 dal ministro fascista di grazia e giustizia Alfredo Rocco, ma pensato e scritto da giuristi che dopo il 1945 avrebbero fatto vanto della loro formazione liberale – i reati di violenza sessuale erano concepiti a tutti gli effetti come reati contro la collettività e non contro la persona, inquadrati come «delitti contro la moralità pubblica e il buon costume». E si può notare pertanto che l’ignominia pubblica nei confronti di uno stupratore non trova più riparo dietro la centralità simbolica della figura del “capo famiglia”, il ‘pater familias’ dell’antica Roma, figura centrale del sistema familiare patriarcale fascista, e – al contempo – della subordinazione delle donne al ruolo di “spose e madri esemplari”. Un mutamento questo che arriva a valle di un più lungo processo socioculturale, maturato in primo luogo sulla spinta dei movimenti femministi a partire dai primi anni Sessanta del Novecento. Nonostante ci sia stata anche l’evoluzione giuridica ricadute e regressioni sono continue. Lo stupro è sganciato dalla questione di genere ed è quindi incastonabile in qualunque format possa infiammare l’opinione pubblica, o rassicurarla. Se le ragazze staranno a casa o vi si faranno ricondurre da padri e fidanzati, avremo meno stupri. Se fermeremo gli sbarchi e cacceremo gli immigrati, avremo meno stupri. Se faremo piazza pulita degli zingari, avremo meno stupri. Se le femministe la smetteranno di chiedere utopistica parità, avremo meno stupri. Ed è in questa cornice che i tempi divengono maturi per sversare sulla figura del partigiano quest’altra accusa denigratoria.
Rispetto al circuito di produzione delle narrazioni antipartigiane descritto nel capitolo precedente, qui si segnalano una discontinuità, un surplus qualitativo e quantitativo di infamia. Ma, ancora, la matrice di queste narrazioni è la medesima nelle finalità così come nel metodo: le singole storie delle vittime di violenza, usate come puntello emotivo di quelle cifre “impressionanti”, sono costruite a partire da pochissimi cenni documentali. Gli stupri, in queste narrazioni, esistono solo per sbandierarli sulla pelle delle donne e per usarli contro di loro. Donne o ragazze, come Giuseppina Ghersi.

Questo libro affronta il tema dei crimini partigiani, o meglio, delle narrazioni su presunti «crimini partigiani» il cui scopo è denigrare la lotta al nazifascismo. Lo fa concentrandosi sul “caso” Giuseppina Ghersi, adolescente uccisa a Savona nell’aprile 1945. Per decenni trascurata dagli stessi neofascisti, nel nuovo secolo la morte di Giuseppina è diventata un leitmotiv della destra ligure, col tempo arricchendosi di dettagli sempre più macabri. La storia era ormai splatter quando nel 2017 i media nazionali l’hanno ripresa e diffusa senza alcuna verifica. Per stabilire la verità storica Nicoletta Bourbaki ha avviato un lungo lavoro di ricerca negli archivi, sopralluoghi, raffronto di documenti e testimonianze. Va detto subito: la storia della «bambina vittima dei partigiani-mostri» è falsa in quasi ogni suo elemento, a cominciare dal mai esistito «tema dedicato al duce», che da solo avrebbe scatenato l’odio dei «rossi». Testimonianze diverse, anche inaspettate, indicano in Giuseppina una nota e per certi versi dichiarata spia fascista, intenta a minacciare cittadini, protetta da marò e brigate nere. Anche i suoi genitori erano disprezzati, perché compromessi col regime, per gli exploit della figlia e perché ostentavano privilegi. Sul caso Ghersi, spiega il libro, non pesò alcuna «congiura del silenzio». Vi furono inchieste e processi, nei cui atti i dettagli horror cari ai fascisti non trovano riscontro, come non lo trova l’accusa più infamante, quella di stupro. Indagando, Nicoletta si è imbattuta in un altro «crimine partigiano», anch’esso ambientato in Liguria: l’«eccidio di Monte Manfrei». Due casi intriganti perché emblematici. Smontandoli, vediamo come funziona la macchina delle storie antipartigiane, e come nell’attuale infosfera tali storie diventino virali.
Ora come ora è importante parlare della lotta partigiana e soprattutto portare, con dei dati veri e attraverso storie vere, cos’è stata.la lotta partigiana e cos’è stato il fascismo. Perché purtroppo, come hai giustamente sottolineato, è diventato semplice raccontare bugie a riguardo sui social e le persone, la.maggior parte almeno, non vanno neanche a informarsi sulla questione.
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No, anche perché alcune invenzioni sono state rilanciate da alcuni media importanti, che – in teoria – sarebbero dovuti essere quelli che facevano i controlli sulla storia che andavano a pubblicare.
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Sì, quello che ho notato in questo Paese è che c’è sempre stata una sorta di… vergogna? Nel parlare di questi argomenti. Penso che le cause siano diverse, ma una delle principali penso sia dovuta al fatto che l’Italia è un Paese molto diviso e lo era anche quando ci fu la liberazione. Non abbiamo mai fatto quel profondo esame di coscienza su cosa sia stato il fascismo come hanno fatto i tedeschi con il nazismo. E questa cosa ci si è ritorta contro.
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È questione complessa perché una buona parte dell’élite del Paese era fascista e non è che alla fine della guerra poteva diventare magicamente antifascista (intento nella sostanza, oltre che a parole). Ma l’Italia purtroppo aveva bisogno anche di loro per essere ricostruita (se non delle loro idee, certamente delle loro competenze) e abbiamo accantonato la questione, senza mai digerirla bene, finché il tempo non ha concesso la scusa del “eh ma è storia vecchia”.
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Esatto, si è evitato di condannare del tutto il fascismo ma soprattutto i fascisti per questo motivo. E con il passare del tempo purtroppo la cosa ci è sfuggita di mano e non si è mai parlato a dovere di cosa sia stato veramente il fascismo e certi strani concetti legati a quel periodo sono entrati nel pensiero comune (tipo i treni arrivavano in orario e cose simili).
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Già, se poi pensi a quantǝ studenti sono stati inculcati i disvalori del fascismo, è facile rendersi conto di quanto la sua influenza sia andata ben oltre il ventennio, purtroppo.
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Ne so qualcosa visto che vivevo in un’area abbastanza fascista e come certi comportamenti non sono stati affatto condannati. La cosa mi orripilava profondamente.
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