Buon lunedì, prodi seguaci!🐁
Visto che aprile aprileggia, è stato molto piacevole passare un fine settimana a leggere: e ho letto tanto, mentre fuori infuriavano temporali e tramontana. Tanta inclemenza climatica mi ha fatto propendere per iniziare questo libriccino, Manifesto della cura, scritto da The Care Collective, un collettivo inglese, in seguito alla pandemia di Covid-19 e all’aggravamento dello stato di incuria delle nostre società.
La famiglia nucleare tradizionale fornisce ancora il prototipo della relazione di cura e delle accezioni contemporanee del concetto di legame, tutte derivate dalle ramificazioni mitologiche del primario “legame materno”. Questo malgrado le persone queer siano sempre più integrate nelle forme convenzionali della società (a condizione però che riproducano il modello di famiglia nucleare tradizionale). I nostri circuiti di cura dunque non solo non si sono ampliati, ma al contrario si sono sempre più ristretti.
Questi modelli sono inaffidabili e ingiusti. La famiglia nucleare non può essere presupposta come unità di base della cura e l’esternalizzazione nel mercato non può essere la soluzione alle asimmetrie di genere delle attuali aspettative e pratiche di cura. Dopotutto in entrambi i casi le donne finiscono per fare la maggior parte del lavoro, che sia retribuito o meno (due terzi del lavoro pagato e tre quarti di quello non pagato su scala globale). Perché le donne dovrebbero svolgere tutto questo lavoro di cura? E cosa succede se non hai una famiglia che ti sostiene, se la tua famiglia ti ha rifiutato o tu hai rifiutato loro? Cosa succede se non puoi permetterti di pagare l’assistenza privata? Le conseguenze di questo sistema hanno portato, nel migliore dei casi, all’abbandono e all’isolamento delle persone più bisognose, e nel peggiore a malattie e morti che potevano essere evitate. Il modo in cui il neoliberismo insiste sul prendersi cura solo di se stessi e dei legami più stretti porta anche a una forma paranoica di “cura per ciò che ci appartiene”, un trampolino di lancio per il populismo di estrema destra in tutto il mondo. Questa considerazione finale ci porta a chiudere il cerchio – dalla mancanza di cura globale alla dipendenza dalla famiglia tradizionale – sottolineando come i diversi livelli che abbiamo delineato sin qui siano tutti legati tra loro in maniera stretta e indissolubile.
In tempi di ascesa dei populismi di estrema destra e di incertezza in un mondo postpandemico l’idea di cura è stata ristretta al punto da significare esclusivamente cura e interesse verso “chi è come noi”. Nella situazione terrificante che viviamo oggi più lo stato populista produce spettacoli di indifferenza verso il “diverso” e più si fa forte. Solo una minoranza di noi, a quanto pare, si sente turbata quando i bambini migranti sono strappati dalle loro famiglie, quando interi ecosistemi sono ridotti in cenere come effetto del cambiamento climatico o, come nel Brasile di Jair Bolsonaro, sono deliberatamente distrutti per fare spazio a iniziative capitalistiche. Una delle immagini che sono arrivate a definire l’America di Trump è quella della first lady Melania Trump in visita a un centro di accoglienza per bambini rifugiati separati dalle proprie famiglie mentre indossa una giacca con una scritta a grandi caratteri bianchi «I Really Don’t Care. Do U?» (Non me ne frega niente. E a te?). ‘Fregarsene’ è presentato dalla destra come una forma di “realismo”: un chiaro sintomo di quella ce definiamo la banalità dell’incuria. Dimostra inoltre quanto sia cruciale la questione della dipendenza e e dell’interdipendenza a ogni livello delle nostre società e delle nostre vite, e gli effetti distruttivi della negazione di questa interdipendenza.

La pandemia ha svelato la centralità sociale dei lavori di cura: badanti, infermiere, lavoratrici domestiche, fattorini, rider e addetti alle pulizie hanno dominato per giorni la scena pubblica. Ma anche se di cura oggi si parla tanto, l’incuria continua a regnare sovrana. Il sistema neoliberista l’ha infatti ridotta a questione individuale, da comprare sul mercato, con una progressiva privatizzazione dei servizi sanitari, sociali e alla persona che privilegia i profitti sulle vite di tutte e tutti noi. Ma se i ricchi possono delegare i propri bisogni quotidiani a soggetti oppressi (donne e migranti) come possiamo dare vita a sistemi in cui l’interdipendenza degli uni dagli altri sia finalmente riconosciuta, in forme solidali e paritarie? Il collettivo inglese Care Collective risponde a questa domanda individuando quattro cardini fondamentali per dare vita a comunità di cura: il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità. Facendo tesoro delle buone pratiche dei movimenti femministi e ambientalisti propone una cura reciproca, non paternalista né assistenzialista: una «cura promiscua», che non discrimina nessuno ed è fuori dalle logiche di mercato. L’obiettivo è arrivare a un vero e proprio «stato di cura» che non solo crea infrastrutture di welfare «dalla culla alla tomba» ma genera una nuova idea di democrazia orientata ai bisogni collettivi. Dimostrando che la cura è il concetto e la pratica più radicale che abbiamo oggi a disposizione.
Interessante. Mi ha catturato molto la copertina.
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Vero? Di solito quando vediamo delle figure disposte in maniera piramidale non è un buon segno (perlomeno per chi sta in basso), e invece qua si ribalda la logica gerarchica già nell’illustrazione in copertina.
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Infatti, inoltre la prima cosa che ho notato è stata “ma guarda, è la persona sulla sedia a rotelle che sorregge l’altra”. Mi piace, sovverte la solita narrazione del ‘volemose bene’ in cui sono le persone privilegiate a concedere un aiuto.
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