«Ho appena terminato un grande romanzo a cui ho lavorato per quasi dieci anni…» scriveva nel 1960 Vasilij Grossman, scrittore noto in patria sin dagli anni Trenta (e fra i primi corrispondenti di guerra a entrare, al seguito dell’Armata Rossa, nell’inferno di Treblinka). Non sapeva, Grossman, che in quel momento il manoscritto della sua immensa epopea (che aveva la dichiarata ambizione di essere il Guerra e pace del Novecento) era già all’esame del Comitato centrale. Tant’è che nel febbraio del 1961 due agenti del KGB confischeranno non solo il manoscritto, ma anche le carte carbone e le minute, e perfino i nastri della macchina per scrivere: del «grande romanzo» non deve rimanere traccia. Gli occhiuti burocrati sovietici hanno intuito subito quanto fosse temibile per il regime un libro come Vita e destino: forse più ancora del Dottor Živago. Quello che può sembrare solo un vasto, appassionante affresco storico si rivela infatti, ben presto, per ciò che è: una bruciante riflessione sul male. Del male (attraverso le vicende di un gran numero di personaggi in un modo o nell’altro collegati fra loro, e in mezzo ai quali incontriamo vittime e carnefici, eroi e traditori, idealisti e leccapiedi – fino ai due massimi protagonisti storici, Hitler e Stalin) Vasilij Grossman svela con implacabile acutezza la natura, che è menzogna e cancellazione della verità mediante la mistificazione più abietta: quella di ammantarsi di bene, un bene astratto e universale nel cui nome si compie ogni atrocità e ogni bassezza, e che induce a piegare il capo davanti alle sue sublimi esigenze. «Libri come Vita e destino» ha scritto George Steiner «eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio».

«Il libro segue con ottocentesca, tolstojana generosità molteplici destini individuali spostandosi da Stalingrado (città doppia: simbolo di difesa e libertà contro la violenza nazista e insieme luogo-emblema dell’Urss staliniana; solo nella “casa di Grekov” si vive secondo onore e senza gerarchie) ai lager sovietici e ai mattatoi nazisti, da Mosca (le stanze del potere, le celle della Lubjanka) alla provincia russa. E raccontando la “crudele verità” della guerra, le storie intrecciate di eroi e traditori, automi di partito ed esseri pensanti, delatori, burocrati, intriganti, carnefici, martiri, personaggi fittizi e reali, inframmezzando la narrazione con numerosi dialoghi (di ascendenza, questi, dostoevskiana), Grossman continua a interrogarsi sull’essenza di sistemi che uccidono la realtà – di conseguenza anche gli uomini – falsificandola, sostituendola con l’Idea. Al posticcio e menzognero “bene” di Stato lo scrittore può opporre soltanto, per quanto ardua e apparentemente impossibile in tempi disumani, la bontà individuale, rivendicando – sommessamente, ma con tenacia – l’irripetibilità del singolo destino umano. Giacché “Ciò che è vivo non ha copie … E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne”». (Serena Vitale)

Io chiedo la libertà per il mio libro…

Grossman in una lettera a Chruščëv

Quando Vita e destino era appena nato e il suo autore lo aveva proposto alla rivista Znamja, iniziarono subito i suoi guai. Il caporedattore Koževnikov, infatti, si premurò immediatamente di avvertire il Comitato Centrale per far esaminare quel manoscritto dai contenuti così smaccatamente pericolosi per gli anni Sessanta del XX secolo in URSS. Il Comitato bollò il romanzo come antisovietico e si presentò a casa di Grossman per sequestrare qualunque materiale riportasse tracce del manoscritto.

Grossman protestò, arrivando anche a scrivere a Chruščëv, ma l’unica risposta che ottenne fu che il suo libro avrebbe potuto danneggiare l’Unione Sovietica e che quindi non sarebbe stato pubblicato per molto, molto tempo. Comprensibilmente, Grossman non la prese bene e i suoi ultimi anni, passati sotto stretta sorveglianza da “esiliato in patria”, furono tutt’altro che sereni.

Fortuna volle che prima del sequestro Grossman fece fare delle copie che furono tenute nascoste e al sicuro da amicǝ. Alla fine degli anni Settanta – quando Grossman era ormai morto senza conoscere il destino della sua opera – si riuscì in maniera piuttosto rocambolesca a far uscire Vita e destino dall’Unione Sovietica e, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, finalmente in Svizzera si trovò anche un editore disposto a pubblicarlo. Nel 1980 una prima edizione incompleta vede la luce e dovremo aspettare fino al 1989 per l’edizione integrale derivante da una seconda copia, meglio conservata, che era rimasta in URSS. Solo nel 2013 i manoscritti sequestrati furono restituiti alla figlia di Grossman.

Cosa contiene dunque questo romanzo di così pericoloso per l’URSS? Sicuramente il parallelismo tra nazismo e stalinismo, tra campi di sterminio e gulag, tra totalitarismo tedesco e totalitarismo russo: entrambi i sistemi fanno dello Stato una macchina del terrore volta a schiacciare non solo ogni dissenso, ma anche ogni naturale empatia per le sorti di chi subisce l’offesa del potere.

Personalmente ho amato la capacità di Grossman di raccontare la dimensione umana di ogni personaggio, anche di quelli meno scontati, che tendiamo a vedere come mostri a di là dell’umano, nonostante l’avvertimento di Hannah Arendt sulla banalità del male: Hitler e Stalin. Seguendo il filone del romanzo dell’Ottocento dove vediamo gli effetti della Storia sulle persone comuni, l’occhio di Grossman, reso acuto dalla sua esperienza di cronista di guerra e di ex simpatizzante della causa comunista, riesce a cogliere e descrivere quei dettagli di umanità che normalmente sfuggono, ma che ci hanno regalato delle meravigliose pagine di letteratura.

È uno di quei romanzi che trovo irresistibile perché capace di nutrire il mio amore per le storie che riescono a raccontare quegli inestricabili sentimenti di gioia e dolore per essere vivǝ, per essere allo stesso tempo importanti e insignificanti su questa palla a cui è capitato di ruotare alla giusta distanza dal Sole e per la tragedia di non riuscire a realizzare se stessǝ per essere natǝ nel momento e nel luogo sbagliati, una drammatica casualità che può disporre della tua vita come capita, secondo l’utilità e il capriccio di chi detiene il potere.

È un peccato che, nonostante venga riconosciuto come un capolavoro e addirittura come erede di Guerra e pace, Vita e destino non goda della stessa notorietà. Per dovere di cronaca, vi specifico che andrebbe letto dopo Stalingrado, che narra degli eventi precedenti, ma, siccome è un altro bel mattone di quasi novecento pagine e mi dicono non essere bello come Vita e destino, l’ho saltato a piè pari senza rimpianti. Magari un giorno lo recupererò: per il momento sono contenta di non aver rischiato che un romanzo non eccellente mi facesse passare la voglia di leggere Vita e destino.