Dall’11 maggio 2016 le unioni civili sono legge. E se sul matrimonio è stato scritto molto e sulle donne altrettanto, sulle donne che hanno deciso di sposarsi fra loro si sa molto meno. A riempire con la sua intelligenza questo vuoto, arriva Chiara Sfregola che, a partire dalla sua esperienza di lesbica, di femminista e di moglie, racconta con un passo a metà tra saggistica e memoir cosa è stato storicamente e cosa sta diventando, oggi, il matrimonio. Una volta pronunciato il fatidico sì molte persone, anche di destra, anche persone che sono sempre state contrarie all’adozione da parte delle coppie gay, hanno iniziato a chiederle quando aveva intenzione di fare figli. Altre persone, lesbiche incluse, hanno chiesto dell’abito: chi indosserà quello bianco? (che è la versione politically correct del “chi fa l’uomo?”). Alcune femministe l’hanno guardata male: tu quoque, ossequi l’istituzione antiquata e collabori col patriarcato? La sfida di questo libro è rispondere a queste e a molte altre domande. Per esempio: se il matrimonio nasce come istituzione che limita la libertà delle mogli, qual è il senso del matrimonio fra due donne? Come si può reinventare, fra pari, quello che è sempre stato, storicamente, un rapporto di sottomissione? Se non vuoi avere dei figli, cosa ti sposi a fare? Che succede ora che una femminista può sposare una sua “collega”? La risposta possibile è una: succede che il matrimonio va a un corso di aggiornamento. Perché se le donne cambiano, anche il matrimonio deve cambiare. Una lettura indispensabile per capire i nuovi modelli di famiglia e inventarne di nuovi.

Qualcosa mi ha enormemente disturbato in questo libro – e non in senso buono – e sto ancora cercando di capire bene cosa sia. Probabilmente un insieme di più elementi.

Innanzi tutto, non ho gradito la premessa di Sfregola, nella quale dichiara che questo memoir non è un sacco di cose: non è un trattato sul femminismo (anche se l’autrice è femminista e quindi lo è anche il libro), non è un manuale sulla vita matrimoniale (anche se dà tanti consigli), non è un libro di teoria queer (qui si parla di vita reale), non è questo, non è quello, ma solo un po’ di questo e un po’ di quello.

Mi ha dato subito l’impressione che Sfregola volesse mettersi al riparo dalle critiche, che, come si tocca il femminismo e dintorni, piovono copiose e spesso neanche troppo gentili. Però così facendo si è piazzata su un piedistallo e si è resa molto distante da quella complicità con le altre donne che ha cercato di trovare raccontando la sua storia. Il tono sussiegoso, poi, non l’ha aiutata.

Come ciliegina sulla torta, ci aggiungerei il tentativo di suscitare sorellanza e simpatia facendo ricorso al tormento di ogni donna: l’estetica e il racconto mitologico secondo cui ognuna di noi pratichi la skin care e abbia il terrore del primo capello bianco. Ora, che ci sia una pressione sociale enorme su come le donne dovrebbero gestire il loro aspetto estetico ce lo ricordano anche solo le reazioni scomposte alla vista di qualunque gamba femminile non depilata, ma l’idea che io in quanto donna debba sapere tutto di skin care (addirittura fin dalla pubertà!) non mi suscita alcuna simpatia. Mi fa solo incazzare.

Lo so che Sfregola voleva solo rendere più sbarazzino il suo libro, ma – davvero – che fastidio quest’atteggiamento da club della frustrazione dove entri in quanto donna e dove puoi lamentarti del tempo e dei soldi che butti nell’estetica (o di qualsiasi altra cosa ti senti in dovere di fare/dire/essere) senza veramente non dico fare la rivoluzione, ma nemmeno elaborare un discorso che aiuti le donne a uscirne.

Alla fine di questo libro non mi rimane niente se non la sensazione di un’altra occasione sprecata. Peccato.