Buon lunedì, prodi seguaci.
Avrei voluto pubblicare questo articolo il 25 settembre scorso, ma la visione di questo documentario mi ha messo così tanta rabbia addosso che ho preferito aspettare prima di scriverne. Il documentario in questione è È stato morto un ragazzo e ricostruisce cosa accadde il 25 settembre 2005 quando Federico Aldrovandi fu picchiato a morte da quattro agenti di polizia.
Il documentario potete vederlo su Vimeo: dura un’ora e mezzo e non c’è un solo minuto che non faccia male per il dolore, la violenza e l’omertà.
Spero che lo vediate (o l’abbiate visto) in tantə, anche se capisco chi non riesce a causa del carico emotivo che la visione comporta. In effetti, adesso che l’ho visto e sono sbollita, non me la sento di aggiungere molto altro a parte tre considerazioni.
La prima riguarda il fatto che, se lo Stato deve autorizzare l’esistenza di corpi armati autorizzati a fare un certo uso di armi e violenza, da cittadina (ma anche solo da essere umano) pretendo la tutela da qualsiasi abuso. Non riesco francamente a concepire come sia possibile opporsi a una buona legge sulla tortura o ai numeri identificativi per le forze dell’ordine. Mi si dice che in questo modo si vuol tutelare il loro lavoro e io mi chiedo da quando in qua in uno Stato di diritto tortura, abuso di potere e cieca violenza siano necessari per svolgere bene un qualsiasi lavoro.
La seconda considerazione è strettamente collegata alla prima: come faccio a fidarmi delle forze dell’ordine se tra loro c’è che si sente autorizzatə ad abusare del suo potere e di godere di una certa protezione e impunità anche se commette dei reati? Pensiamo sempre che nelle brutte storie con le forze dell’ordine finiscano persone equivoche, che essere gente per bene ci tuteli da ogni pericolo in tal senso, ma non è vero. Federico Aldrovandi era un diciottenne che tornava a casa a piedi dopo aver salutato gli amici, una circostanza normalissima.
Infine, e se anche stessimo parlando di persone che hanno compiuto dei reati? Tortura e abusi di potere sarebbero ammessi? Il disprezzo che viene scaricato su Federico Aldrovandi e suoi suoi amici, quei drogati, è spaventoso: a gente alla quale è concesso un certo uso della violenza dovrebbe essere ben chiaro che non esistono categorie di persone inferiori contro le quali ogni limite può essere infranto in virtù del loro presunto minor valore.
Si può solo sperare che, in seguito alle lotte di tutte le famiglie che hanno avuto un familiare ucciso da membri indegni delle forze dell’ordine, questi omicidi insensati non accadano più.
Bellissimo articolo. Non conoscevo questo caso e appena avrò un momento libero guarderò il documentario, sicuramente utile a sensibilizzare su questo tema… Sicuramente è un lavoro difficile, a tratti spaventoso, e a mio parere non c’è abbastanza formazione per chi entra nelle forze dell’ordine e questo è un problema enorme.
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Purtroppo in Italia sono tanti e pochi quelli che conosciamo, soprattutto grazie alle lotte di familiari e amici, come le storie di Stefano Cucchi o Giuseppe Uva. Hai ragione, ci vorrebbe più formazione e più attenzione: la speranza è che queste morti terribili servano almeno ad aumentare la consapevolezza che esiste un problema e che bisogna fare il possibile per risolverlo.
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Condivido totalmente quanto scrivi. Ed è importante non lasciar cadere il ricordo di questo fatto e di tanti, troppi, dello stesso genere. Drammaticamente consapevoli che di ben pochi veniamo a conoscenza, potendoli almeno riconoscere e onorare, per quanto poco valga.
L’umanità pare essere un costrutto davvero molto fragile, e ha bisogno di essere educata, rafforzata, sostenuta.
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Infatti, conosciamo quelli che sono arrivati ai media, spesso grazie alle dure lotte per la verità di amici e familiari. La speranza è che queste morti terribili aumentino la consapevolezza del problema e portino chi di dovere a trovare una soluzione.
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