I versi satanici non è solo un romanzo straordinario, ricchissimo di immagini e invenzioni, ma è anche un libro che ha diviso l’opinione pubblica mondiale, dando origine a un caso letterario senza precedenti. La storia che viene descritta è un meraviglioso cocktail di realismo e fantasia, una vicenda magica in cui due viaggiatori, miracolosamente scampati a un disastro aereo, si vedono trasformati l’uno in una creatura angelica e l’altro in un essere diabolico. Ormai simboli del Bene e del Male, i due si affronteranno nella più antica e inevitabile delle battaglie, una lotta senza esclusione di colpi destinata a protrarsi in eterno nel tempo e nello spazio, dai più sperduti villaggi indiani alla Londra contemporanea. Un abbagliante mosaico di allegria e disperazione, di finzione e verità.
Era da un bel po’ di tempo che I versi satanici giaceva non letto nella mia libreria. È uno di quei libri che desideravo leggere, ma ero frenata dal timore di non capirci una mazza. Mi dava l’idea di essere uno di quei libri cervellotici e allegorici che mi sarei stufata di leggere prima di capirne il significato.
In effetti, questo mio pregiudizio è in parte giustificato, in quanto I versi satanici non è quello che potremmo definire un romanzo convenzionale. In primis per l’uso disinvolto del realismo magico, che Rushdie non usa come un folklorico elemento fantastico, ma come un artificio letterario necessario a narrare la sua storia. In sintesi, succede roba strana in questo romanzo. Roba strana che ti induce a rileggere il passaggio per essere sicura di aver letto bene. Ma vi assicuro che il realismo magico si intreccia perfettamente con il suo significato e con il messaggio che ci vuol trasmettere l’autore: il risultato non è così oscuro come potrebbe sembrare a prima vista.
In secondo luogo, a Rushdie piace mischiare le carte. Gli piace prendere storie ormai consolidate nella nostra mente e rinarrarle per far sì che producano novità: nuove idee e nuove sfide. Per Rushdie, fossilizzarsi su una storia e diventare incapaci di rivederla e rinarrarla è una sconfitta e l’inizio della fine della propria libertà. Infatti, se non hai il coraggio e la capacità di rivedere le vicende del passato alla luce del presente, hai perso la facoltà di migliorarti.
Questo modus operandi ha procurato una fatwā al povero Rushdie, come oramai tutti sappiamo: il modo in cui l’autore ha rinarrato la storia dei versi satanici ha scatenato le ire di una parte dei musulmani, che lo ha accusato di blasfemia.
Ora, io non sono certo in grado di stabilire cosa sia o meno blasfemo nei confronti di qualunque religione, ma nel corso della lettura non ho avuto proprio la sensazione che Rushdie volesse insultare la religione islamica. Anzi, la questione religiosa, se così vogliamo chiamarla, è inserita nel romanzo solo come parte di un’altra tematica, decisamente preponderante: le difficoltà che deve affrontare lo straniero nell’integrarsi in un ambiente a lui totalmente estraneo. In queste difficoltà rientrano numerosi schemi mentali e certamente anche una diversa religione rispetto a quella predominante nel paese ospitante.
Difatti, se vorrete leggerlo, vi consiglio di focalizzarvi sul tema del migrante e di lasciar perdere le polemiche: scoprirete un romanzo sorprendentemente attuale e che offre numerosi spunti di riflessione sul mito dell’integrazione.