È l’estate del 1912 a Brooklyn. I raggi obliqui del sole illuminano il cortile della casa dove abita Francie Nolan, riscaldano la vecchia palizzata consunta e le chiome dell’albero che, come grandi ombrelli verdi, riparano la dimora dei Nolan. Alcuni a Brooklyn lo chiamano l’Albero del Paradiso perché è l’unica pianta che germogli sul cemento e cresca rigoglioso nei quartieri popolari. Insieme a suo fratello Neeley, Francie raccoglie pezzi di stagnola che si trovano nei pacchetti di sigarette e nelle gomme da masticare, stracci, carta, pezzi di metallo e li vende in cambio di qualche cent. Francie se ne va a zonzo per Brooklyn. Lungo il tragitto forse qualcuno le ricorderà che è un peccato che una donna così graziosa come sua madre, ventinove anni, capelli neri e occhi scuri, debba lavare i pavimenti per mantenere tutta la famiglia. Qualcun altro magari le parlerà di Johnny, suo padre, il ragazzo più bello e più attaccato alla bottiglia del vicinato, qualcuno infine le sussurrerà mezze parole sull’allegro comportamento di sua zia Sissy con gli uomini. Francie ascolterà e ogni parola sarà per lei una pugnalata al cuore, ma troverà, come sempre, la forza per reagire, poiché lei è una bambina destinata a diventare una donna sensibile e vera, forte come l’albero che, stretto fra il cemento di Brooklyn, alza rami sempre più alti al cielo.
Non essendo nata con la camicia, il mito del self-made man (quello che alla fine ce la fa, non importa quante avversità debba fronteggiare) ha sempre avuto appeal su di me.
Così è stato anche con Un albero cresce a Brooklyn, la storia di Francie e della sua famiglia, che cercano di tirare avanti e migliorarsi a dispetto della loro sfortunata partenza. Tutti i personaggi di questa famiglia sono interessanti e con le loro caratteristiche peculiari: dalla femminilità pericolosa di Sissy alla granitica forza di Katie; dal sognatore Johnny alla fedele Mary.
Tutti i membri di questa famiglia puntano con forza verso l’obiettivo: far studiare i figli. A partire dalla nonna, nelle loro menti è stata ben instillata l’importanza dell’istruzione, a cominciare dall’alfabetizzazione: così, noi lettori li vediamo avvicinarsi alla meta un passetto – e tanti sacrifici – alla volta, da una generazione all’altra.
Siamo nei primi anni del Novecento e sognare il sogno americano forse era più realistico rispetto ai primi anni Duemila. In effetti, parecchia retorica da American dream mi è sembrata un po’ eccessiva – o forse è solo colpa mia e della mia disillusione. Tuttavia, rimane un buon libro. E un buon sogno (che alle volte si realizza: bisogna ricordarsi di non dimenticarlo).