Nel 1685, i giorni dei pirati raggruppati nella confraternita detta dei Fratelli della Costa, obbedienti al re di Francia, sono contati. Luigi XIV ha fatto la pace con la Spagna e le scorribande dei filibustieri dei Caraibi, che hanno per base l’isola della Tortuga (La Tortue), sono diventate scomode. Un nuovo governatore ha preso possesso dell’isola e intende normalizzarla.
È in questa situazione che un nostromo portoghese, Rogério de Campos, ex gesuita dal passato torbido, è catturato dal comandante pirata Lorencillo e arruolato a forza. Si trova a vivere tra gente sconcertante, dalla vita libera e indisciplinata e dalle imprevedibili esplosioni di crudeltà.
Lentamente, Rogério è conquistato dalle regole a volte fraterne, a volte feroci, di quella comunità singolare. La sua è una progressiva discesa all’inferno – un inferno, però, fondato sullo scatenamento degli istinti, e a suo modo “democratico”. La stessa Tortuga, covo della Filibusta fedele in teoria alla Francia, ha le apparenze di una repubblica, eppure si fonda sul più rigido schiavismo.
Rogério, passato al servizio del tetro cavaliere De Grammont, partecipa all’ultima grande avventura dei pirati della Tortuga: la presa, sanguinosissima, della città di Campeche, sulle coste messicane. Unica luce, in quella conquista infernale, l’amore del portoghese per una schiava africana da cui lo stesso De Grammont è attratto. Sarà l’episodio che volgerà il viaggio di ritorno in tragedia.
Tra abbordaggi, episodi di ferocia, momenti di cameratismo, su vascelli sovraccarichi in cui il sangue si mescola al sudore, una percezione tormenta Rogério. Nel Mar dei Caraibi si sta fondando una nuova società. Sì, ma quale? La fine della Tortuga a cosa prelude?
Tortuga è uno di quei romanzi che si leggono quando si ha voglia di avventure assai scomode mentre si sta al calduccio e al sicuro. Di per sé, infatti, il romanzo non presenta chissà quale profondità, a dispetto forse della volontà dell’autore.
Infatti, un paio di personaggi si dilettano nel parlare di filosofia, rispolverando pure il vecchio Hobbes, ma le riflessioni non attaccano. Forse perché il tema è troppo trito e avrei preferito più avventura e meno chiacchiere. Ormai lo sanno anche i muri che l’immagine romantica del pirata è una panzana (a dispetto di Emilio Salgari e Jack Sparrow): quindi tutta questa attenzione alla violenza e alla crudeltà piratesca volta all’analisi della natura umana (buona o cattiva?) non mi ha colpito più di tanto.
E crudeltà e violenze se ne vedono molte: è un romanzo sconsigliato a chi si impressione facilmente. Sangue e budella ovunque, sia nelle scene di arrembaggio, sia nei racconti dei pirati (che evidentemente si divertono molto con lo splatter).
Un altro elemento di perplessità è stata la personalità dei personaggi. Chi sono costoro? Bella domanda. Il romanzo avrebbe senz’altro giovato di una caratterizzazione migliore: avrebbe dato spessore alla storia e l’avrebbe resa migliore. Penso principalmente ai due capitani, De Grammont e Lorencillo, che con una personalità meglio delineata avrebbero potuto essere indimenticabili.