Nel giardino della vita appassiscono le foglie dell’Eterea, la magica pianta che da secoli mantiene il divieto contro il ritorno dei demoni e assicura la pace al popolo degli Elfi. Nessuno potrà impedire la morte dell’Eterea, ma c’è l’esile speranza che l’incantesimo si rinnovi, se uno degli Eletti riuscirà a bagnarne un seme nella fontana del Fuoco di Sangue. È un’impresa ai limiti dell’impossibile, una sfida contro il tempo e contro il Male. Tra poesia e avventura, tra sortilegi e terrore continua la meravigliosa leggenda di Shannara.


Meglio del primo, ma non ancora all’altezza di una buona trilogia fantasy. Cosa manca? Sostanza e forma, per così dire.

Manca la sostanza perché tra una settimana (o forse anche meno) mi sarò dimenticata completamente di questo libro. Non mi ha lasciato nulla. I personaggi sono piatti, privi di fascino e forza empatica. Gli unici che potrei salvare sono Eretria e Stee Jans (che si rivela mille volte più carismatico del legittimo erede al trono degli Elfi).

Manca la forma perché lo stile di Brooks continua a essere carente. Ancora una volta il Male viene descritto con ogni turpe parola che possa essere rintracciata nel dizionario e ancora una volta si ha l’impressione che questi demoni siano babau. L’intero romanzo dà l’idea che la vittoria finale sia scontata: il lettore non riesce a percepire gli sforzi dei protagonisti, i loro tormenti, le loro paure. Tutto viene descritto e niente fa presa. Il capitolo finale sembra addirittura svelare l’intera impalcatura narrativa: quel personaggio esiste perché altrimenti dopo la guerra sarebbe rimasto un vuoto incolmabile che avrebbe reso il finale incompleto. Davvero pessimo.

Naturalmente anche in questo secondo episodio ci sono numerosi riferimenti a Il Signore degli Anelli, ma non risultano invasivi come ne La Spada di Shannara. Ho trovato più fastidiose le analogie tra i due romanzi del Ciclo (una su tutte, Wisp-Orl Fane).

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