Il risveglio al libero arbitrio, il passaggio sconvolgente della grazia, la necessità della caduta originaria, infine la violenza imposta per natura dal cielo all’uomo, paradossalmente equilibrata dalla violenza compiuta dall’uomo contro il cielo, nel breve intervallo di sogno fra le analoghe oscurità della nascita e della morte, questi sono i segni centrali della Vita è sogno. Segni soverchianti e intrattabili, che sembrerebbero impedire quella plasticità e individuazione nel particolare che sarebbero più tardi diventate il metro della invenzione teatrale. Eppure il dramma si articola con rapidità, irrimediabile, fra barbagli di immagini, nella cornice incantata di rupi e corti remote. Abbandonando ogni rigido schematismo allegorico, Calderón si serve della teologia come della suprema macchina teatrale, l’unica che gli può permettere di congiungere nella concettosità labirintica una vicenda irripetibile e irriducibile con un modello universale e atemporale legando cioè il puro teatro a una sorta di liturgia cosmica. Egli arriva a creare questo portentoso ibrido attraverso un uso «talismanico» della parola, che in lui ci appare sempre, secondo la definizione di Walter Benjamin, come un continuo «potenziamento romantico del discorso». Così un’apparenza poetica inscalfibile, preziosa, suggella La vita è sogno, lo espone intatto da secoli a nuove letture e scoperte, forse come l’unico dramma che accetti e vinca la sfida di rappresentare in una sola immagine comprensiva l’intera estensione dell’esistenza. Pur nella puntigliosa fedeltà al testo e alla sua musicalità, la versione di Luisa Orioli riesce, come raramente accade, a essere di per sé opera di poesia.


Ne La vita è sogno, si parla del potere di un re sul suo popolo, di un padre su un figlio. Un re che vorrebbe essere giusto, ma che per esserlo si è sentito legittimato a prendere una decisione tremenda: far crescere suo figlio in una torre isolata per impedire la realizzazione di una profezia scritta nelle stelle. Sigismondo – il figlio – avrebbe calpestato il padre e sarebbe stato fonte di sventura. Ma prendere provvedimenti contro una profezia non equivale a realizzarla?

Com’è possibile che questo non accada quando Sigismondo è stato cresciuto come un bruto? Cosa potrà mai accadere quando il re Basilio decide di metterlo alla prova, facendogli sapere che quello che avrebbe dovuto essere suo di diritto dovrà guadagnarselo? La reazione di Sigismondo sarà brutale, crudele e vendicativa, esattamente quanto profetizzato. Come stupirsene?

E allora sembrerà non esserci più altra soluzione se non quella di rinchiudere nuovamente Sigismondo nella sua torre, facendogli credere di aver sognato tutto. E tale sarà la loro opera di persuasione da convincere Sigismondo che la vita è sogno, illusione, inganno, piena di maestà e grandezze effimere. Il simbolismo e i riferimenti cristiani permeano tutta l’opera (come è facile comprendere dall’Auto Sacramental che segue La vita è sogno in questa edizione).

E allora se tutto è sogno e illusione, che senso ha vivere? Fare del bene, fare del male… niente ha più senso. Ma dice Sigismondo di fronte alla disonorata Rosaura: “Se è sogno, se è vanagloria, / chi, per vanagloria umana, / perde una gloria divina?”. Come è giunto Sigismondo a questa conclusione da bruto rabbioso che era? Vivendo nella realtà, senza nessuno che gli dica cosa fare.

Alla fine, la profezia si avvererà e l’ordine sarà ristabilito. Il principe risparmierà il re e il re comprenderà il principe. Tancredi nel 1958 dirà: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. E il traditore, infatti, sarà rinchiuso nella torre.

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