Buon lunedì, prodi seguaci!🫧

Spero che abbiate passato la prima parte delle feste invernali in maniera piacevole e che il parentame non sia stato troppo molesto: nella speranza che non siate troppo storditə dagli zuccheri, vi lascio una corposa citazione da Il femminismo non è un brand di Jennifer Guerra dove si spendono due parole molto interessanti (ma tutto il libro lo è) sulle fortune della sindrome dell’impostore.

Per lungo tempo mi sono considerata una vittima di questa sindrome [la sindrome dell’impostore]. Vivevo con la costante impressione di non meritarmi nulla e che da un momento all’altro avrei potuto perdere tutto ciò che avevo costruito. Al tempo stesso, mi sentivo in colpa perché ero incapace di godermi i miei successi o perché attribuivo alcuni miei meriti ad altre persone. Poi ho capito. Questo mio stato d’animo non c’entrava nulla con l’essere o meno vittima di una sindrome, ma andava rintracciato in altre cause, come l’essere cresciuta in una famiglia ‘working class’, lontana dai centri culturali del Paese, e aver vissuto da giovane donna in un contesto patriarcale. «La diagnosi di questa sindrome, – ha scritto Leslie Jamison sul «New Yorker», – è diventata una forza culturale che rafforza proprio il fenomeno che avrebbe dovuto curare». In altre parole, la sindrome dell’impostore finisce con l’attribuire la causa di problemi sistemici come la discriminazione di genere o razziale alla mancanza di autostima. E così la soluzione trovata da molti datori di lavoro per ovviare al problema è quella di puntare su corsi di leadership, anziché aumentare gli stipendi o le promozioni. L’articolo di Jamison si sofferma inoltre su quanto le donne nere – ma il discorso potrebbe valere anche per gli altri gruppi marginalizzati, come le donne con disabilità o migranti – si sentano estranee al concetto di sindrome dell’impostore: le loro difficoltà sul lavoro prescindono infatti dall’impegno personale o dalla ‘self confidence’, ma dipendono piuttosto dal razzismo, dall’abilismo o dalla povertà. Pensare che le donne siano svantaggiate sul lavoro perché non credono abbastanza in loro stesse è un’analisi parziale e consolatoria di un problema molto più articolato, nonché una negazione dei reali rapporti di potere. Ma la sindrome dell’impostore funziona perché non smentisce in alcun modo la retorica meritocratica, anzi sembra porvi un’ulteriore conferma: il merito esiste, come un’entità a sé, sei tu che rifiuti di prendertelo.

Le celebrity che hanno dichiarato di «soffrire» a causa della sindrome dell’impostore sono tante quanto quelle che hanno dichiarato di essere femministe, e spesso le due cose coincidono. Il racconto della loro ascesa allo ‘star system’ è spesso costellato di fallimenti e crisi, ma alla fine si conclude sempre con lo stesso lieto fine: se ti impegni abbastanza, se magari rendi le tue imperfezioni i tuoi punti di forza, ecco che raggiungi la tua personalissima forma di perfezione (etica ed estetica). Il femminismo, in questo racconto, gioca il ruolo di aiutante che con la bacchetta magica fa sparire tutte le proprie insicurezze, in un viaggio solitario in cui la meta è sempre la stessa, il successo.

Copertina di Il femminismo non è un brand di Jennifer Guerra: riporta il disegno di un flacone viola di detersivo liquido. Sull'etichetta è raffigurato il dettaglio di un arcobaleno e sotto c'è scritto, Usare in caso di pinkwashing.

Descrizione: Negli ultimi dieci anni il femminismo è tornato a essere un fenomeno di massa, colorando di rosa i simboli dell’emancipazione femminile e delle nobili cause a essa associate. Spesso però sotto questo colore si nascondono operazioni opache. Un femminismo addomesticato, affine agli interessi di politici e aziende, è davvero femminismo? Ma soprattutto questa versione mainstream è una variante del femminismo o una strategia del capitalismo?

Oggi a un’adolescente basta aprire Instagram per imbattersi in riflessioni femministe (o pseudofemministe), risparmiandosi la necessità di unirsi a un collettivo o a un gruppo di autocoscienza. Brand di abbigliamento si improvvisano femministi e producono magliette in serie con frasi inneggianti al girl power. Pagine social e piattaforme digitali graficamente accurate alternano post o storie motivazionali a inserzioni pubblicitarie. Innumerevoli servizi immateriali propongono corsi sull’empowerment, sulla valorizzazione femminile, su come rendere più women friendly il proprio business. Inoltre l’ossessione recente per le celebrity femministe promuove l’idea che un certo tipo di femminismo sia da mettere in soffitta per fare spazio a un femminismo nuovo, egemonico, che nasconde sotto il tappeto i pensieri più radicali e si fa portatore di valori positivi, anche se profondamente contraddittori. Come scrive Jennifer Guerra in questo saggio acuto, la recente riemersione del soggetto politico femminista in un paradigma economico che non si fa scrupoli a capitalizzare i temi sociali in nome del profitto ci pone di fronte a delle sfide nuove. Il primo nodo da sciogliere è se le aziende e i marchi si meritino il «patentino» del femminismo e il secondo, forse più impegnativo da sbrogliare, riguarda l’influenza che la nuova postura della brand identity esercita sulla pratica femminista. Per tentare di dare una risposta a queste domande, è necessario capire come si è arrivati a questo punto.

Fediverse Reactions

7 risposte a “Citazione della settimana – “Il femminismo non è un brand” di Jennifer Guerra”

  1. @lasiepedimore.com I corsi di leadership e di autostima per donne, sono una inc… [censura se no gifter mi mena] insomma una inclusione falsa.
    Ovvero, è come dire "sì lui è stato violento, e tu sei rimasta con lui lo stesso… Potevi andartene invece di lasciare che ti spaccasse il muso". Questa roba qua.

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    1. Per fortuna non sono mai stata sottoposta a questa tortura… ehm, corsi…

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  2. Una riflessione davvero molto interessante e approfondita di questa società e di cosa non va.

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  3. L’ho seguita per anni su Instagram e i suoi post sono molto interessanti, ma non ho mai recuperato niente di quello che ha pubblicato. Aspetto la tua recensione per capire se vale la pena farlo. Intanto ho ripreso a leggere I Diari della Spaziale, se solo sapessi dove mettere gli altri numeri 🥲

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    1. Io l’ho conosciuta tramite newsletter, poi adesso ha anche un canale YT dove da gennaio dovrebbe iniziare un bookclub di teoria femminista. Ti posso già dire che è un bellissimo saggio e che mette nero su bianco un disagio che probabilmente provano molte persone davanti all’uso che è stato fatto della parola “femminista” negli ultimi anni.
      Quello dello spazio è un problema gigantesco, ti mando un abbraccio di solidarietà!🫂

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      1. Si anch’io la seguo su Substack visto che lo avevo iniziato a usare ma per scrivere per me è scomodo. Cercherò il canale YT

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