
Descrizione: In pochi hanno saputo raccontare la fragilità maschile senza stereotipi, senza pregiudizi, senza vergogna. Matteo Bussola sa farlo con schiettezza e umanità. In queste pagine lancinanti eppure piene di luce, un uomo trova il coraggio di disertare la propria esistenza e costruire un sogno. Un padre in neuropsichiatria con il figlio impara ad accogliere la ferita di chi ha messo al mondo. Un anziano marito, prendendosi cura della moglie malata di Alzheimer, si domanda che cosa rimanga di una relazione quando chi amiamo sparisce, anche se possiamo ancora toccarlo. Un hikikomori che si è innamorato online vorrebbe incontrare chi è diventato per lui così importante, ma la paura di uscire lo imprigiona. Un bambino ubbidiente scopre la bellezza inattesa di deludere le aspettative. Incrinati, piegati, sconfitti, capaci però di cercare un senso, di intravederlo lì dove mai avrebbero creduto, questi protagonisti trovano ognuno un modo personale, autentico, spudoratamente onesto, di rispondere alla «Che cosa fa di un uomo un uomo?»

Ho iniziato a leggere Un buon posto in cui fermarsi animata dalle migliori intenzioni: mi era stato suggerito come un libro dove si raccontano storie di uomini che vanno oltre la mascolinità tossica ed ero tutta contenta all’idea di scrivere bene di questo lavoro di Matteo Bussola. Non mi aspettavo che mi sarei infastidita subito con il primo capitolo. Neanche il tempo di finire di sistemare le terga sul divano: una lettrice non può mai rilassarsi in pace.
Infatti, già la prima storia presenta gran parte dei difetti che funestano tutto il libro. Come prima cosa, tutto è dolorosamente scontato e superficiale: il classico banchiere tutto casa e scalata verso il successo che incontra due sognatori in un rudere in campagna e cambia vita. Ora. Ho vissuto più di trent’anni in campagna e ne ho viste passare di persone con idee romantiche del lavorare la terra: di solito sono quelle che scoprono che non è la campagna in sé a riempirti di senso la vita e passano il loro tempo a pentirsi di essersene andate dal paese.
Faccio un appello aə scrittorə: vi prego, basta con questi personaggi che cambiano vita trasferendosi in campagna. Ce ne sono tonnellate di storie così, non ne possiamo più, sono tutte uguali, fate loro cambiare vita con l’apertura di una ferramenta, per favore.
Un altro problema è la rappresentazione della moglie del banchiere. Ci si aspetterebbe che parlassero insieme di questo grosso cambiamento di cui lui ha bisogno: invece, no. Lei è totalmente appiattita sui desideri di lui, a tal punto da non avere nemmeno un nome: è solo sua moglie e il suo ruolo è unicamente quello di supportare e attendere a casa il nostro wannabe contadino. Estendendo il problema di questa storia a tutto il libro, si può dire che Bussola descriva la mascolinità nelle varianti (apparentemente) meno sgradevoli sotto il patriarcato: è come se dicesse che si vergogna dell’esistenza di siti come Phica punto eu e pagine Facebook come Mia moglie, ma senza andare oltre, senza mettere in moto una riflessione che porti a cambiare il paradigma e rendere quelle pratiche violente un relitto del passato. Che ce ne facciamo delle sole dichiarazioni di innocenza?
Lo sappiamo già che non tutti gli uomini sono cattivi – come non tutte le donne sono buone. Bussola racconta la mascolinità in un modo che è già vecchio: penso a come ha trattato i personaggi queer e a quell’uomo trans ancora legato alla retorica del corpo sbagliato. So che rispetto alla storia femminista quella della maschilità plurale è ancora acerba, ma le sue storie sono già molto più variegate e complesse di quelle che ha messo insieme Bussola: il coraggio di andare a vedere cosa c’è oltre gli stereotipi si merita di meglio di un romanzo intriso solo di sentimentalismo stucchevole.




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