Buon lunedì, prodi seguaci!🐘

Questi ultimi giorni del 2021 m’è presa di leggere i libri di Marco Aime: dopo Conversazioni in alto mare, ho iniziato Guida minima al cattivismo italiano, scritto con Luca Borzani. Evidentemente L’arcobaleno della gravità non mi sta deprimendo abbastanza, che vi devo dire…

Come afferma Alessandro Dal Lago: «Ciò che infatti hanno in comune immigrati marocchini, algerini, senegalesi o rumeni, zingari, profughi albanesi, bosniaci o curdi è esclusivamente il fatto di non avere diritto a vivere nel nostro spazio nazionale (o sovranazionale) perché non italiani, non europei occidentali, non sviluppati, non ricchi». Un atteggiamento che richiama quella che Giorgio Agamben definisce «la biopolitica dello Stato moderno», in seguito alla quale i diritti dell’uomo, intesi in senso universale, vengono soppiantati da quelli del cittadino e producono «la separazione fra umanitario e politico che stiamo oggi vivendo». Gli immigrati rappresentano un elemento inquietante perché spezzano la continuità tra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità. Individui strappati alla loro vita e alla loro storia, a cui è stato reciso ogni legame con il passato e con il presente. Privati anche dell’origine: non sono neppure maliani, eritrei, siriani, senegalesi. Tutti uguali in quanto stranieri. Lucidamente ciniche, le parole di Max Frisch fotografano queste immagini: «Di stranieri ce ne sono troppi: non tanto nei cantieri di costruzione e nelle fabbriche, e neppure nelle stalle o nelle cucine, ma nel tempo libero. Specialmente la domenica, improvvisamente, ce ne sono troppi». È questa la semplificazione, la grande palude in cui si alimenta la crescente banalità del male.

Che gli italiani siano cambiati, e non proprio in bene, è ormai un dato di fatto. Quella mutazione antropologica intuita da Pier Paolo Pasolini a metà degli anni Settanta è oggi ben più evidente e con tratti forse peggiori. E se in tutto l’Occidente si sono incrinate le democrazie e prevale un individualismo spaventato e consumista, l’Italia ha anticipato molti dei processi che oggi ci fanno guardare con sguardo preoccupato e disarmato l’involuzione civile che attraversa gli Stati Uniti e larga parte dell’Europa. Una deriva che parte da lontano, e cioè da quel 1989 che non solo non ha mantenuto le sue promesse ma ha segnato l’avvio di una nuova e spesso spietata globalizzazione del pianeta. In questo senso l’immigrazione è davvero il fenomeno che in modo più evidente permette di leggere il cambiamento delle culture degli italiani. Non l’unico, ovviamente. Ma l’immigrazione svolge una «funzione specchio» capace di rivelare la natura della società di accoglienza, portando alla luce ciò che è latente, un inconscio sociale lasciato nell’ombra. Prefazione di Donald Sassoon.