Progettato e iniziato intorno al 1844-45, pubblicato a puntate nel 1847, in volume l’anno successivo, La fiera delle vanità è il romanzo più noto di Thackeray. In queste pagine si narrano le vicende parallele di due donne molto diverse: Becky Sharp, tanto coraggiosa e intelligente quanto astuta, arrivista e priva di scrupoli, e la compagna di scuola Amelia Sedley, emblema di virtù ma anche terribilmente ingenua e un po’ sciocca. Dominato da un garbato sarcasmo che a tratti si trasforma in un’ironia più feroce, La fiera delle vanità sconvolse la società letteraria vittoriana per la schietta descrizione della realtà sociale dell’epoca, che sia l’ambiente mondano londinese, quello esotico dell’India colonizzata, quello militare, rozzo e primitivo, oppure quello ipocrita e perbenista della Chiesa. Su questo molteplice sfondo si snoda con incredibile fluidità una narrazione dominata da molteplici personaggi. Manca, in questo romanzo, un eroe completamente positivo: al suo posto, per la prima volta, si muovono sulla pagina figure che non sono semplici manichini, ma uomini in carne e ossa.

Quanto mi sono divertita a leggere La fiera delle vanità! È stato proprio un ottimo libro per entrare nel mood delle letture da calura estiva che, per quanto mi riguarda, comprende romanzi poco impegnativi perché il mio cervello va in pappa oltre una certa temperatura afosa. Quindi ben vengano queste ottocento e passa pagine di vanità umana, che sarà anche effimera e tutta apparenza, ma quanto tempo ci perdiamo, magari nascondendoci dietro questioni di principio e morale.

Se, infatti, la società nella quale viviamo non è quella inglese dell’Ottocento, la vanità che Thackeray mette in scena è ben lungi dall’essere un ricordo del passato. Anzi, oggi invece di averla confinata nei salotti e nei luoghi dabbene, ce la ritroviamo sempre davanti grazie – si fa per dire – ai social. E allora ecco le persone vanesie che si sono ambientate perfettamente, quelle arriviste che si sono adattate, quelle goffe che suscitano risa e compatimento, quelle virtuose che vengono ignorate… È ancora la stessa fiera: difficile non subire il fascino del romanzo di Thackeray.

Mi risulta evidente come a Dickens potesse rodere il culo davanti al successo de La fiera della vanità: l’attrattività di una storia piena di personaggi tridimensionali e realistici non può che essere maggiore rispetto a una con personaggi che mirano a essere dei modelli. Niente da eccepire sul talento di Dickens – ci mancherebbe! – ma la soddisfazione che deriva dal leggere un romanzo che non ha paura di affrontare le ipocrisie della società è impareggiabile.

Né Rebecca né Amelia, le protagoniste del romanzo, possono essere annoverate tra i perfetti modelli di donna cattiva e donna buona. Sono due donne con caratteri, background e obiettvi molto diversi e non sono né buone, né cattive, ma persone che ogni tanto si comportano bene e a volte si comportano male (okay, Rebecca tende più a comportarsi male, ma non può comunque essere definita una persona cattiva tout court).

Il fascino de La fiera della vanità è tutto qui: pare poco, ma chi vuole leggere di donne di alta levatura morale quando può leggere la storia di quella bricconcella di Rebecca Sharp che si inventa storie strappalacrime e alla fine l’ha sempre vinta?