Buon lunedì, prodi seguaci.

Alla luce delle proteste e delle rivolte per l’uccisione di George Floyd, mi sono ritrovata a leggere il libro giusto al momento giusto: La linea del colore di Igiaba Scego. Consigliato soprattutto a chi crede ancora a gli italiani brava gente.

«Dirò tutta la verità una volta arrivato in patria. Vuoterò il sacco su Dogali, su come ci hanno trattato questi damerini impomatati del regio esercito. Dirò dei nostri ufficiali vigliacchi e dei nostri vestiti laceri. Dirò della loro arroganza e dei loro lussi sfrenati. Vuoterò il sacco».

Franco non era l’unico a volerlo fare. Ma molti dei pazienti etichettati come facinorosi furono preventivamente trattenuti in ospedale dall’esercito. Ordine del primo ministro Agostino Depretis in persona.

«Ma come?» protestò Franco Mussi. «Ma come? Io devo partire. Ho una moglie che mi aspetta e un figlio che non ho mai visto. Hanno bisogno di me, del loro capofamiglia».

Ma Franco e quelli come lui considerati teste calde furono trattenuti. Giusto il tempo necessario per preparare in patria la propaganda, la nazione non voleva cacofonie e parole storte. La politica esigeva il silenzio sulle mancanze di De Cristoforis e degli altri ufficiali. «Questa sconfitta dobbiamo trasformarla in vittoria», dicevano.

E fu Agostino Depretis l’officiante di quella patetica messinscena. In gioventù il primo ministro era stato colmo di ideali, come tutti. Mazziniano di ferro, affiliato alla Giovine Italia e nominato dittatore pro tempore da Garibaldi. Una carriera rivoluzionaria, ma poi dietro l’angolo la vecchiaia e quel sapore di potere che difficilmente si toglie dalla bocca. E come tanti prima di lui si era piegato totalmente alla ragion di stato.

«Voglio dei martiri», disse. E la macchina della propaganda fu subito messa in moto.

Quattrocentoventi morti divennero cinquecento perché la cifra suonava meglio nei titoli dei giornali. E tutti i caduti furono innalzati al rango di eroi della patria che si erano battuti con coraggio contro il nemico abissino.

«L’Italia non può abbandonare l’Africa», dicevano i politici. «L’Italia deve vendicare i suoi eroi, l’Italia deve tornare a Dogali perché la patria finisce sempre quel che comincia».

«Viva l’Italia!»

Franco Mussi dal suo letto di ospedale non sapeva quello che stava succedendo. Non immaginava tutta quella marea di retorica che stava annacquando i pensieri. Quando lo seppe, moltissimo tempo dopo, gli convenne tacere perché ormai nessuno gli avrebbe più creduto. Quella vita militare era stata proprio una bella fregatura.

Una volta a Zollino, però, anche per lui ci fu un po’ di gloria. I suoi compaesani lo accolsero da eroe e fu fatta una festa in suo onore.

A un certo punto Franco Mussi prese un bicchiere di grappa, salì su un tavolo di legno malconcio della taverna di Rocco, un vecchio amico, e con quanto fiato aveva in gola gridò anche lui Viva l’Italia, viva la patria. La sua verità, la sua rabbia, quel senso di impotenza li ingoiò tutti con la grappa. Anche lui alla fine scese a patti con il diavolo della propaganda. E alla fine si godette pure lui quel suo essere un falso eroe di una falsa patria.

Quanti di noi scendendo oggi da un treno a Roma Termini ricordano i Cinquecento cui è dedicata la piazza antistante la stazione? È il febbraio del 1887 quando in Italia giunge la notizia: a Dògali, in Eritrea, cinquecento soldati italiani sono stati uccisi dalle truppe etiopi che cercano di contrastarne le mire coloniali. Un’ondata di sdegno invade la città. In quel momento Lafanu Brown sta rientrando dalla sua passeggiata: è una pittrice americana da anni cittadina di Roma e la sua pelle è nera. Su di lei si riversa la rabbia della folla, finché un uomo la porta in salvo. È a lui che Lafanu decide di raccontarsi: la nascita in una tribù indiana Chippewa, lo straniero dalla pelle scurissima che amò sua madre e scomparve, la donna che le permise di studiare ma la considerò un’ingrata, l’abolizionismo e la violenza, l’incontro con la sua mentore Lizzie Manson, fino alla grande scelta di salire su un piroscafo diretta verso l’Europa, in un Grand Tour alla ricerca della bellezza e dell’indipendenza. Nella figura di Lafanu si uniscono le vite di due donne afrodiscendenti realmente esistite: la scultrice Edmonia Lewis e l’ostetrica e attivista Sarah Parker Remond, giunte in Italia dagli Stati Uniti dove fino alla guerra civile i neri non erano nemmeno considerati cittadini. A Lafanu si affianca Leila, ragazza di oggi, che tesse fili tra il passato e il destino suo e delle cugine rimaste in Africa e studia il tòpos dello schiavo nero incatenato presente in tante opere d’arte. Igiaba Scego scrive in queste pagine un romanzo di formazione dalle tonalità ottocentesche nel quale innesta vivide schegge di testimonianza sul presente, e ci racconta di un mondo nel quale almeno sulla carta tutti erano liberi di viaggiare: perché fare memoria della storia è sempre il primo passo verso il futuro che vogliamo costruire.