Buon lunedì, prodi seguaci!🌧
È iniziata la settimana di San Valentino (aro fellows, stay strong!) e io sono ancora alle prese con Trilogia di New York di Paul Auster, di cui sto leggendo l’ultimo libro, La stanza chiusa. Vi lascio l’incipit di quest’ultimo che, come quelli che l’hanno preceduto, è capace di lasciare il segno e incuriosire – peccato che, almeno per quanto mi riguarda, gran parte dell’entusiasmo iniziale se ne vada con lo svoltare delle pagine….
Adesso mi sembra che Fanshawe ci sia sempre stato. È lui il luogo dove per me tutto comincia, senza di lui non credo che saprei chi sono. Quando ci siamo incontrati non sapevamo ancora parlare, eravamo lattanti che arrancavano carponi fra l’erba, e a sette anni ci eravamo già punti le dita con uno spillo proclamandoci fratelli di sangue per la vita. Ogni volta che ripenso alla mia infanzia, vedo Fanshawe. Era lui che mi stava vicino, la persona con cui condividevo i miei pensieri e che vedevo appena alzavo gli occhi da me stesso.
Ma questo fu molto tempo fa. Siamo cresciuti, abbiamo preso direzioni diverse, ci siamo allontanati. Credo che in questo non ci niente di strano. Le nostre vite ci guidano secondo schemi che non possiamo controllare, e con noi non rimane quasi nulla. Le cose muoiono quando noi moriamo, e in verità moriamo tutti i giorni.
In una città stravolta e allucinata, in cui ogni cosa si confonde e chiunque è sostituibile, i protagonisti di queste storie conducono ciascuno un’inchiesta misteriosa e dall’esito imprevedibile. Tutto può cominciare con una telefonata nel cuore della notte, come nel caso di Daniel Quinn (Città di vetro), autore di romanzi polizieschi che accetta la sfida che gli si presenta e si cala nei panni di un detective sconosciuto. Ma può anche capitare che chi debba pedinare si senta a sua volta pedinato (Fantasmi); o, ancora, che ci sia qualcuno che s’immedesima a tal punto nella vita di un amico da sposarne la vedova e adottarne il figlio…
Io di Auster ho appena finito “Nel Paese delle Ultime Cose”! 😊
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Com’è? A me “Trilogia di New York” sembra molto bello tecnicamente, ma non mi sta trasmettendo nulla… sembra “solo” un esercizio di stile…
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Ecco ho avuto la stessa sensazione io, molto bello stilisticamente ma l’ho trovato un po’ piatto, non mi ha mai presa veramente, l’ho continuato a leggere giusto perché non è nemmeno 200 pagine..
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Allora mi sa che è proprio una caratteristica di Auster…🤷
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