Buon lunedì, prodi seguaci!🦩

Spero che abbiate passato un 25 aprile tutt’altro che sobrio: per rincarare la dose, perché non iniziare la nuova settimana ricordandoci da dove vengono certe idee malsane sulle donne, i loro corpi e la loro sessualità? Eccovi una lunga citazione da Malacarne. Donne e manicomi nell’Italia fascista di Annacarla Valeriano.

La donna «essenzialmente madre» e «fedele alla legge della generazione» era al centro della «battaglia demografica» e del programma di risanamento eugenetico: essa aveva nella società una missione da compiere «non meno sacra di quella del soldato verso la patria» e dunque il controllo del suo corpo – o meglio della sua «carne ridotta all’organismo» – diveniva un affare di Stato. Ugualmente, le manifestazioni della sua sessualità venivano sorvegliate da un potere sempre più organizzato «intorno alla gestione della vita piuttosto che alla minaccia della morte» e ricondotte a una «responsabilità biologica» nei confronti della specie che fosse in grado di impedirne pericolosi deragliamenti non finalizzati alla procreazione. La normalità sessuale, infatti, rappresentava l’«elemento basilare della sanità fisica e psichica» e culminava nella maternità che completava la donna «anche fisicamente oltre che moralmente».

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Inoltre, se la scienza si impegnava a «vagliare le cause della sterilità e a studiare i mezzi più idonei per prevenirla e combatterla», la legislazione penale fascista, parimenti, non poteva disinteressarsi della necessità di «vegliare sulla incolumità etnica della Nazione»: considerava delitti «contro la integrità e la sanità della stirpe» le pratiche abortive, quelle che impedivano la procreazione e diffondevano il contagio venereo e, in generale, gli atti che comportando la «perdita dell’attitudine alla maternità» annientavano la donna – «per non lasciarne che una scoria impura come strumento di piacere» – e dissolvevano le energie della razza. La punizione delle azioni che rappresentavano dei «veri attentati alla vita della Nazione» era funzionale a garantire l’efficacia della battaglia demografica e, di fatto, elevava la difesa della razza a «funzione di diritto pubblico»; per il legislatore fascista, infatti, i delitti contro la stirpe erano inferiori «solamente a quelli contro la sicurezza dello Stato».

Copertina di Malacarne. Donne e manicomio nell'Italia fascista di Annacarla Valeriano: raffigura un gruppo di donne (due in piedi e due sedute davanti a loro) in una vecchia fotografia d'epoca in bianco nero. Si tratta di pazienti di un manicomio.

Descrizione: A quarant’anni dalla legge Basaglia, che ha sancito la chiusura dei manicomi, riemergono le storie e i volti di migliaia di donne che in quei luoghi hanno consumato le loro esistenze. In questo libro sono soprattutto donne vissute negli anni del regime fascista: figure segnate dal medesimo stigma di diversità che, con le sue ombre, ha percorso a lungo la società, infiltrandosi fin dentro i primi anni del l’Italia repubblicana. All’istituzione psichiatrica fu consegnata, dall’ideologia e dalla pratica «clinica» del fascismo, la «malacarne» costituita da coloro che non riuscivano a fondersi nelle prerogative dello Stato. Su queste presunte anomalie della femminilità, il dispositivo disciplinare applicò la terapia della reclusione, con la pretesa di liberarle da tutte quelle condotte che confliggevano con le rigide regole della comunità di allora. La possibilità di avvalersi del manicomio al fine di medicalizzare e diagnosticare in tempo «gli errori della fabbrica umana» non fece che trasformare l’assistenza psichiatrica in un capitolo ulteriore della politica sanitaria del regime, orientata alla difesa della razza e alla realizzazione di obiettivi di politica demografica, attraverso l’eliminazione dalla società dei «mediocri della salute», dei «mediocri del pensiero» e dei «mediocri della sfera morale». Fu così che finirono in manicomio non solo le donne che si erano allontanate dalla norma, ma anche le più deboli e indifese: bambine moralmente abbandonate, ragazze vittime di violenza carnale, mogli e madri travolte dalla guerra e incapaci di superare gli smarrimenti prodotti da quell’evento traumatico. In questo libro i percorsi di queste esistenze perdute vengono finalmente ricomposti, attraverso l’uso sapiente di una ricchissima documentazione d’archivio: fotografie, diari, lettere, relazioni mediche, cartelle cliniche. Materiali inediti che raccontano la femminilità a partire dalla descrizione di corpi inceppati e che riletti oggi, con sguardo consapevole, possono contribuire a individuare l’insieme dei pregiudizi e delle aberrazioni che hanno alimentato – e in modo nascosto e implicito continuano ancora oggi ad alimentare – l’idea di una «devianza femminile», da sradicare per sempre dal nostro orizzonte culturale.

7 risposte a “Citazione della settimana – “Malacarne” di Annacarla Valeriano”

  1. L’ho letto. Un libro veramente inquietante, che mostra come le donne siano state sempre vessate e punite in caso di sgarro. Tra le diagnosi delle ricoverate espressioni come “è birichina”, “non ha voglia di lavorare”… e via in manicomio!

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    1. Ma pure le donne che leggevano o studiavano: ho perso il conto delle scuse che mi avrebbero fatto finire in manicomio.

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      1. Probabilmente anch’io ci sarei finita per svariate mie caratteristiche…

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  2. “Responsabilità biologica”, la cosa triste è che questa gente non ci ha mai manco capito un cazzo di biologia. La cosa assurda è che la definizione della purificazione della razza come la intendono loro nel loro mondo ideale è una cosa che se messa in pratica porterebbe ad un’esplosione di malattie genetiche. E la cosa triste è che la gente che la vede così non solo ancora esiste ma viene pure votata, mortacci.

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    1. Se si fosse capito qualcosa di biologia, di sicuro oggi si guarderebbe a qualunque determinismo biologico come si guarda una cacca di cane su un marciapiede. E invece, eccoci qua, ancora a pensare che sia tutto questione di genetica, che ci sia il gene magico eliminato il quale, pouf!, sparisce anche la caratteristica indesiderata e che si possa bellamente ignorare l’ambiente ostile e violento nel quale si vive e che – quello sì! – provoca le malattie mentali.

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