Copertina di Il traduttore del silenzio di Daoud Hari: raffigura la foto di un bambino, sulla destra, nel deserto. In lontananza si vedono alcune formazioni rocciose.

Daoud è nato in un piccolo villaggio di capanne, nel Darfur. Capanne rotonde, spaziose, con il tetto di erba che quando piove profuma di buono. E nonostante sia stato lontano anni, prima per studiare in città, poi per lavorare in Libia, Daoud l’ha sempre portato nel cuore. Tanto che, dopo varie e drammatiche vicissitudini, ha deciso di tornare a casa, facendo il percorso inverso a quello di milioni di profughi. Ha ritrovato la sua gente, suo padre e i suoi fratelli, in particolare l’amato Ahmed, appena prima di perdere tutto. Un giorno il villaggio è stato attaccato, le capanne bruciate e Ahmed è stato ucciso. L’ha sepolto Daoud con le sue mani, nella sabbia, prima di incamminarsi nel deserto con i sopravvissuti. Alle loro spalle, le colonne di fumo disperdono nell’aria le ceneri di case, alberi, e anche dei corpi dei vecchi che non hanno voluto o potuto andarsene. Lontane dalla ribalta del mondo, scene come questa accadono quotidianamente nel Darfur. In questa regione del Sudan tanto povera in superficie quanto ricca nel sottosuolo, si consuma da più di vent’anni un genocidio silenzioso e indisturbato, per mano dello stesso governo sudanese.

Divisore

Se posso presumere che esista un legame di amicizia fra noi, amico lettore, ti chiedo di riflettere sul fatto che stasera, mentre scrivo queste parole, e probabilmente mentre tu le leggi, c’è ancora gente che viene uccisa in Darfur, e gente che soffre nei campi profughi. I leader mondiali possono risolvere questo problema, e il popolo del Darfur potrà tornare a casa, se quegli stessi leader capiranno che la gente è abbastanza interessata da richiamare la loro attenzione. Quindi, se ne hai il tempo, potresti farlo. Perché è inutile corre rischi per dare notizie, se poi chi le legge non agisce.

Questo libro è stato pubblicato nel 2008 e siamo davvero ancora a parlare di gente che viene uccisa in Darfur (in parte, probabilmente, anche dalle stesse persone). È una realtà molto deprimente, che sicuramente non migliora alla luce del fatto che l’attenzione mediatica che sta ricevendo un altro luogo di stragi di civili, la Striscia di Gaza, non impedisce minimamente a Israele di continuare a perpetrare crimini di guerra.

Tuttavia, nonostante gli eventi tremendi che Il traduttore del silenzio racconta, non è un libro che trasmette angoscia, ma una grande speranza. E non sto parlando della speranza vacua di chi guarda da lontano, ma la speranza opulenta di chi vuole vivere mettendo le mani in pasta cercando di fare del suo meglio. Non troverete grandi atti eroici in questo libro, ma solo tanti gesti di gentilezza e solidarietà che hanno permesso a Hari di raccogliere molte testimonianze e infine di salvarsi anche la vita.

La positività che esce da questo libro è talmente forte che le storie drammatiche di cui Hari è testimone suonano particolarmente cacofoniche, in un modo che ne sottolinea benissimo la mostruosità: l’eco di un mondo nel quale cercare di dare una mano era una buona cosa e non una decisione da guardare con sospetto.

È possibile farlo in questo secolo? È possibile risolvere tutti i problemi uccidendo chiunque rappresenti un ostacolo? Sta al mondo deciderlo. Decidere se e quando la popolazione tradizionale del Darfur tornerà a casa significa decidere anche se il genocidio funziona o no, e quindi se accadrà di nuovo in altre parti del mondo. A me sembra che questo sia un buon posto per bloccarlo per sempre.

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Valutazione del libro: quattro stelline gialle

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