Buon lunedì, prodi seguaci!🌱

Questo fine settimana ho iniziato a leggere troppi libri (è proprio un vizio!), tra i quali L’impossibile capitalismo verde di Daniel Tanuro: ho subito divorato una settantina di pagine, scorre molto bene e mette proprio quella sensazione di panico che Greta Thunberg vorrebbe provassimo tuttə a proposito del cambiamento climatico (che Tanuro definisce più sconvolgimento climatico, giusto per trasferire anche a voi un po’ di panico).

È difficile sfuggire alla conclusione che il sistema capitalistico di produzione si sia costruito intorno alle energie fossili per sete di sovrapprofitto, nonostante la loro nocività. Per giunta, esso impiega queste risorse a dispetto del buon senso, aumentandone con ciò stesso le ripercussioni sociale e ambientali. I grandi mezzi di comunicazione ci martellano le orecchie con i sacrifici che ciascuno di noi dovrebbe accettare per risparmiare energia: usare lampadine a risparmio energetico, abbassare il termostato, viaggiare meno in macchina, mettere il coperchio sulle pentole, ecc. Tutto questo non è inutile e se ne deve tenere conto, senza sentirsi in colpa, entro i limiti della possibilità sociale. Tuttavia, questa pubblicità svia l’attenzione dal fatto che il sistema energetico è contraddistinto da enormi sprechi strutturali, ben più rilevanti dei comportamenti personali. È rilevante l’esempio dei trasporti. Nel XX secolo, i vantaggi del petrolio come fonte abbondante ed economica di carburante liquido ad elevato contenuto energetico hanno permesso a capitalisti sempre più concentrati e centralizzati di esercitare un ruolo chiave nella mondializzazione dei trasporti, quindi dei mercati, e di occupare una posizione strategica sul piano economico e su quello politico. A datare da allora, insieme ai produttori di carbone, le compagnie elettriche e i grandi settori dipendenti dal petrolio (automobile, costruzione navale e aeronautica, petrolchimico), le multinazionali petrolifere hanno impedito l’impiego di risorse energetiche, di tecnologie e di schemi distributivi alternativi, spinto al sovraconsumo e limitato i progressi dell’efficienza energetica, a livello sia dei sistemi sia dei prodotti.

Senza mai cedere al catastrofismo, il libro argomenta la drammaticità delle conseguenze dello sconvolgimento climatico, per nulla affrontate dai vertici internazionali, che privilegiano i profitti immediati dei gruppi industriali al futuro stesso dell’umanità.
Di fronte a tale situazione l’autore cerca di rispondere al “rompicapo del secolo”, ovvero come stabilizzare il clima soddisfacendo al contempo il legittimo diritto allo sviluppo di 1,3 miliardi di persone che soffrono la fame e non hanno accesso ad acqua ed energia elettrica. E lo fa con rigore scientifico e sintetizzando gran parte
del dibattito dei movimenti ecologisti, dimostrando l’impossibilità di un capitalismo verde, e criticando sia le teorie della decrescita che alcune ambiguità produttiviste del marxismo.

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