Buon lunedì, prodi seguaci!🎄

Visto che siamo entratз nella settimana di Natale e siamo tuttз pienз di buoni sentimenti e di sostanze stordenti per reggere gli assalti del parentame, ho pensato di iniziare uno di quei libri che mi fanno incazzare di brutto con l’UE e la politica italiana, visto che le persone continuano a essere respinte e a morire nel Mediterraneo perché ci rifiutiamo di aiutarle. Il libro è Conversazioni in alto mare di Riccardo Gatti e Marco Aime.

Mi ha molto colpito un pescatore di Lampedusa con cui ho chiacchierato a lungo. Intanto mi ha raccontato come i primi a incrociare i barconi siano stati i pescatori, che peraltro non sono nemmeno abituati a fare salvataggi. Dopo avermi spiegato quanto è difficile fare un salvataggio, ma di questo ne parleremo, mi ha anche raccontato alcuni episodi che gli erano capitati. E mi ha fatto ridere, perché alla fine mi ha anche detto: «Guarda, a me sulla terraferma non mi sono simpatici, ma in mare li salvo». Mi è sembrata una gran cosa: cioè, non mi deve piacere, è semplicemente un dovere umano.

– Beh, parliamoci chiaro: le culture ci sono, e sono diverse. Com’è diverso l’approccio al bene comune. Lavorando da sempre nel sociale e da molto con le persone migranti, ti dico che ci sono persone e nazionalità davanti alle quali io, diciamo così, non lascerei il portafoglio incustodito, perché so che me lo ruberebbero… La mia visione generale del mondo è che tutti debbano essere liberi, debbano potersi muovere in libertà. La realtà è che ci sono indubbiamente persone e culture più conflittuali di altre. Ma il punto non è se a me piacciono o meno: qui è tutto un altro discorso.

Anche perché si rischia di cadere davvero in una sorta di razzismo capovolto. Cosa che a volte accade, ovvero affermare che gli immigrati siano tutti buoni, che è l’equivalente positivo di «gli emigrati rubano e spacciano». Si negano le storie individuali e si appiattiscono tutte le persone su un pregiudizio, spesso errato.

– E comunque spesso e volentieri gli immigrati si ritrovano all’arrivo in situazioni difficili, e dunque si ritrovano a commettere azioni che non è che piacciano molto. E su questo non possiamo essere troppo ingenui. Proprio perché lavoro da sempre nel sociale, c’è una cosa che negli anni ho sempre preteso dalle persone con cui collaboro: una certa professionalità anche in un ambito come questo. Infatti, se devo aggiustare la macchina, la porto da un meccanico che so che è bravo, e se devo impiantare un orto, chiedo consiglio a uno che è bravo a farlo. Quando invece si parla di lavoro nel sociale, di lavoro umanitario, sembra che per aiutare gli altri basti la buona volontà. Ma non è così. Anzi, la buona volontà è quella che non ti fa vedere la realtà delle cose. Ed ecco che poi arriva quello che ti chiama «buonista» perché tu sei convinto che – storicamente – tutti i neri sono buoni e tutti i bianchi sono cattivi…

Sullo sfondo dell’ipocrisia istituzionale che contrassegna un’Europa formalmente paladina dei diritti umani ma di fatto sempre più arroccata in sé stessa, Riccardo Gatti, da anni impegnato nei soccorsi in mare, ci racconta, in dialogo con Marco Aime, il mestiere del salvare. Così, in queste conversazioni condotte sul «campo», ovvero in navigazione nel Mediterraneo centrale, un «capitano anarchico» e un antropologo che si occupa di migrazioni provano ad analizzare la complessità dei salvataggi in mare e le loro implicazioni, umane ma non solo, così come il clima culturale e la narrazione che intorno a esse si è venuta a creare. Un racconto in diretta che ci aiuta a capire come mai nel giro di poco tempo quelli che erano chiamati «angeli del mare» sono all’improvviso diventati «trafficanti di esseri umani». Contro le retoriche prevalenti, sguaiate da un lato e semplicistiche dall’altro, e soprattutto contro l’indifferenza dei più, queste riflessioni ci fanno entrare nel vivo di uno dei fenomeni più significativi dell’ultimo ventennio. Un fenomeno che è lontano dall’essere concluso e che sta mettendo in gioco i nostri valori più intimi.