Siate onesti: se il vostro lavoro non esistesse, quanti ne sentirebbero la mancanza? Qual è il contributo significativo che offre al mondo? Nella primavera del 2013, David Graeber ha posto questi semplici interrogativi in un articolo provocatorio pubblicato online, e il successo è stato immediato: milioni di visualizzazioni, traduzioni in quasi venti lingue, condivisioni virali in tutto il mondo, campagne spontanee di guerriglia marketing da parte di attivisti politici. Perché i risultati sono stati sorprendenti: oltre il 40% degli intervistati riteneva di svolgere un lavoro inutile, un lavoro privo di senso, un “bullshit job”. A partire da quelle riflessioni e perfezionandole con nuovi dati, ricerche, approfondimenti, Graeber esplora in questo libro una delle più sentite preoccupazioni dell’economia contemporanea, puntando il dito contro una deformazione tipica del capitalismo finanziario che permette a milioni di persone – consulenti per le risorse umane, coordinatori delle comunicazioni, avvocati societari – di svolgere un lavoro inutile senza impedire loro di esserne tragicamente consapevoli. David Graeber studia così i meccanismi attraverso i quali questo fenomeno – che il capitalismo efficientista doveva eliminare – si sta diffondendo oltremisura. Analisi spietata e manifesto per un nuovo umanesimo, Bullshit Jobs mostra come il lavoro anziché finalizzato alla produzione, sia diventato fine a sé stesso, e propone soluzioni capaci di ridistribuire la ricchezza e di superare le diseguaglianze create dal nostro modello economico: non ultima, un reddito di cittadinanza che separi il lavoro dalla retribuzione.

Se chiedete un po’ un giro, sarà difficile che non vi imbattiate nella constatazione che nel corso degli anni ci si è ritrovatз a passare sempre più tempo nello svolgimento di pratiche o mansioni dal significato oscuro, quando non evidentemente inutili.

Anche nella ricerca di un lavoro ci si imbatte in posizioni che magari hanno un nome altisonante in inglese, ma che non è chiaro in cosa consistano: magari alla prova dei fatti si rivelano essere dei bullshit jobs (che la traduzione italiana rende non benissimo con lavori del cavolo).

Secondo Graeber, un bullshit job è un’occupazione retribuita che è così totalmente inutile, superflua o dannosa che nemmeno chi la svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così. Immagino che, anche se non svolgete in prima persona un bullshit job, vi verrà in mente qualche situazione nella quale ci avete avuto a che fare.

L’analisi di Graeber è, come sempre, brillante: lo sguardo di un antropologo sulle cose umane è sempre molto prezioso, per la capacità della disciplina di indagare situazioni che a noi sembrano normali, ma che sono solo il frutto di una specifica organizzazione sociale; allo stesso modo si può dire che lo sguardo di un anarchico sia prezioso, per il modo rifiuta gerarchie che sembrano insormontabili.

L’unico appunto che mi sento di fare a Bullshit Jobs è che sembra un lavoro un po’ grezzo: Graeber racconta di come la sua riflessione sia partita da un articolo che ha avuto ampia risonanza e alla fine si ha l’impressione che il libro ne sia solo un’estensione piuttosto che la teorizzazione definitiva.

Per il resto, niente da eccepire: ci mancherai, Graeber.

8 risposte a “Bullshit Jobs di David Graeber”

  1. Be’, il Covid ci ha insegnato che a parte il personale ospedaliero e quello della filiera alimentare, del resto si può fare a meno. (Sono volutamente provocatorio).

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    1. In maniera volutamente provocatoria, ti do ragione e aggiungo il mio sconcerto nel vedere la sorpresa dei media nello scoprire che ci sono attività più essenziali di altre🤷🏻‍♀️

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  2. Molto interessante. Secondo me non può non trattarsi di una percezione soggettiva: non credo esistano lavori inutili a prescindere, soprattutto perché i datori di lavoro disposti a pagarti per fare nulla credo siano quantomeno molto rari; poi ovviamente si entra nel campo dell’economia, di cui so poco o niente, per cui prendi tutto quello che dico come una chiacchiera da bar.
    Qualche anno fa ho lavorato a Sky, a Milano, e mi sono trovato nella stessa situazione che descrivi: lavoro dal nome altisonante, ma alla fin fine un impiego monotono, tedioso e, per me, alienante. Ho odiato ogni minuto che ho trascorso in quell’ufficio!
    Adesso sono insegnante, e sento di star facendo finalmente qualcosa di utile e buono; anche qui, però, c’è una gran parte dell’impiego che trovo inutile, soprattutto quando si entra nella parte collegiale del mestiere: ore e ore di riunioni che alla fin fine non servono davvero a nulla ma a cui non puoi mancare perché burocrazia.

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    1. In realtà, Graeber prende in considerazione sia l’idea che l’inutilità di un lavoro sia una percezione soggettiva, sia l’idea che la cosiddetta efficienza capitalista impedisca la nascita di bullshit jobs e in entrambi i casi riesce a dimostrare l’incosistenza di queste obiezioni, facendo rientrare la complessità umana nei modelli economici che, per essere il più matematicamente maneggevoli possibile, vengono semplificati molto da questo punto di vista e quindi finiscono per non rendere affatto un quadro così veritiero della realtà.

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  3. L’argomento è sicuramente interessante, anche se il tuo appunto mi preoccupa un po’: si potrebbe pensare che il libro non aggiunga molto ai post di tanti blogger americani che si sono interrogati sull’utilità dei loro lavori e sul bisogno di poter esercitare professioni più creative e stimolanti (scelta che comporta spesso drastiche riduzioni di stipendio e problemi economici).

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    1. In realtà aggiunge molto: il mio appunto si riferisce soprattutto al fatto che è una nuova teoria e che quindi non ha dalla sua parte (ancora?) studi e indagini che la sostengano. Si tratta della presentazione di un’idea brillante nata da un’osservazione e per il momento sostenuta (solo) da tutte le testimonianze raccolte da Graeber. Infatti, poi l’idea di Graeber si estende all’analizzare gli effetti dei bullshit jobs, sia sull’organizzazione socio-economica, sia nella psiche delle persone. Si tratta comunque di un’analisi strutturata, non di una semplice raccolta di persone insoddisfatte delle loro prefessioni, alle quali sono incastrate da esigenze economiche.

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  4. Sembra un testo molto interessante, dovrò certamente recuperarlo.
    Sarebbe illuminante applicare la logica del bullshit job anche a livello micro, ossia tutte quelle pratiche in una mansione in realtà utile che però si rivelano delle grandi perdite di tempo.

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    1. Graeber parla anche di quelle (prendendo ad esempio anche se stesso e il suo lavoro di insegnante), ma trattandole più di sfuggita perché non è l’argomento centrale del libro.

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