Quanti di noi scendendo oggi da un treno a Roma Termini ricordano i Cinquecento cui è dedicata la piazza antistante la stazione? È il febbraio del 1887 quando in Italia giunge la notizia: a Dògali, in Eritrea, cinquecento soldati italiani sono stati uccisi dalle truppe etiopi che cercano di contrastarne le mire coloniali. Un’ondata di sdegno invade la città. In quel momento Lafanu Brown sta rientrando dalla sua passeggiata: è una pittrice americana da anni cittadina di Roma e la sua pelle è nera. Su di lei si riversa la rabbia della folla, finché un uomo la porta in salvo. È a lui che Lafanu decide di raccontarsi: la nascita in una tribù indiana Chippewa, lo straniero dalla pelle scurissima che amò sua madre e scomparve, la donna che le permise di studiare ma la considerò un’ingrata, l’abolizionismo e la violenza, l’incontro con la sua mentore Lizzie Manson, fino alla grande scelta di salire su un piroscafo diretta verso l’Europa, in un Grand Tour alla ricerca della bellezza e dell’indipendenza. Nella figura di Lafanu si uniscono le vite di due donne afrodiscendenti realmente esistite: la scultrice Edmonia Lewis e l’ostetrica e attivista Sarah Parker Remond, giunte in Italia dagli Stati Uniti dove fino alla guerra civile i neri non erano nemmeno considerati cittadini. A Lafanu si affianca Leila, ragazza di oggi, che tesse fili tra il passato e il destino suo e delle cugine rimaste in Africa e studia il tòpos dello schiavo nero incatenato presente in tante opere d’arte. Igiaba Scego scrive in queste pagine un romanzo di formazione dalle tonalità ottocentesche nel quale innesta vivide schegge di testimonianza sul presente, e ci racconta di un mondo nel quale almeno sulla carta tutti erano liberi di viaggiare: perché fare memoria della storia è sempre il primo passo verso il futuro che vogliamo costruire.

Alcune ONG mi hanno chiesto di diventare testimonial di una loro campagna per convincere le persone a non partire. Noi in Somalia il viaggio, lo sai, lo chiamiamo tahrib, da altre parti lo chiamano backway, e io so più di chiunque altro quanto sia pericoloso. Dicono che la Libia sia un pozzo nero. Che da lì non riemergi più. Io non lo so dire, in Libia nemmeno ci sono arrivata. Mi hanno azzannata prima. Ma ecco, cugina, dimmi tu che senso ha andare nei villaggi a dire alla gente di non partire. Io non lo potrei mai dire a un mio coetaneo. Perché ci vogliono togliere quello che loro – i bianchi, gli occidentali, quelli con il passaporto forte – hanno? Possono girare il mondo in lungo e in largo. E vogliono che noi invece non muoviamo un passo. Hanno paura di essere contaminati dal nostro sangue nero? È quella la paura che hanno i bianchi in Occidente? Dimmelo tu, che lì ci vivi. Per questo dico no a queste ONG. Non mi sembra una buona idea dire a un ragazzo: “Ehi, sei africano, sei sfigato, quindi stattene a casa tua, che il mondo non ti vuole.” Che messaggio è?

Ho finito di leggere La linea del colore da diversi giorni e da allora sono qui che mi arrovello su cosa scrivere al riguardo. È stata una lettura importante, capitata per caso in un momento storico nel quale le persone nere hanno di nuovo fatto sentire la loro rabbia negli USA e altrove per le violenze razziste che ancora subiscono.

Dopo la lettura di Adua qualche anno fa, ho ritrovato una Scego dalla scrittura più matura e incisiva, con una prosa che scorre garbata, ma potente e capace di scuotere, perché – semplicemente – non lascia la possibilità a chi legge di voltare lo sguardo dall’altra parte.

E cosa posso dire io di tutto questo? Di tutta questa rabbia, di tutta questa stanchezza, di questa voglia di cambiamento, di questa voglia di uguaglianza? Iniziamo a guardare meglio in casa nostra, tanto per cominciare: quante persone nere non possono respirare perché lasciate annegare nel Mediterraneo? Quante persone sono cittadine italiane di fatto, ma devono dimostrare la loro italianità dopo la maggiore età? Quante persone costrette all’invisibilità ci sono sul nostro territorio, sfruttate nei luoghi di lavoro e impossibilitate a vivere una vita dignitosa?

Cerchiamo di avere a cuore queste battaglie e di dar loro visibilità: senza la nostra spinta collettiva, se noi come popolazione italiana non ne facciamo una questione prioritaria, continueranno a vincere politici capaci solo di aggravare i problemi per poi spacciarsi per i salvatori della patria con il pugno di ferro.

2 risposte a “La linea del colore di Igiaba Scego”

  1. Siamo tutti noi che dobbiamo ringraziare Aboubakar Soumahoro per la battaglia che sta combattendo per quelli che chiama gli invisibili, che non sono tali.
    Sarebbe più corretto dire che combatte per guarire gli italiani dalla cecità, perché loro sono visibilissimi; e sono nostri concittadini, persone che vivono, lavorano e contribuiscono, insieme a noi, alla vita della nostra terra. Il male, orrible, che subiscono è dovuto alla nostra cecità morale.
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    1. Davvero, il suo lavoro è preziossisimo: speriamo riesca ad aprire sempre più occhi.💜

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